Washington Post: è guerra di Vittorio Zucconi

Washington Post: è guerra Crisi nell'autorevole quotidiano della capitale Washington Post: è guerra (Dal nostro corrispondente) Washington, 31 ottobre. Il Washington Post, il quotidiano più autorevole d'America (con il New York Times), il giornale dello scandalo Watergate, è da un mese semiparalizzato da uno dei più aspri conflitti sindacali della sua storia. Dal 30 settembre scorso gli operai del reparto rotative (le grandi macchine che stampano il giornale) sono in sciopero per ottenere il rinnovo del contratto, ma la vertenza è degenerata in episodi di violenza, vandalismo, crumiraggio e nei trenta giorni trascorsi le posizioni della proprietà del quotidiano e dei rotativisti si sono allontanate. Il conflitto ha raggiunto l'altro ieri un vertice di assoluta gravità, quando la proprietà del quotidiano ha denunciato legalmente il sindacato rotativisti, chiedendo 15 milioni di dollari (circa 10 miliardi di lire) di danni. Inutilmente un mediatore nominato dal governo sta cercando di comporre il conflitto: egli è costretto ad incontrare separatamente, in sale diverse del quotidiano, i sindacati e i rappresentanti della proprietà, che rifiutano anche soltanto di vedersi. Gli operai accusano la controparte di voler fare dei rotativisti una «cavia» sindacale per imporre un giro di vite a tutti i dipendenti del giornale e bloccare per i mesi a venire le rivendicazioni sindacali. La proprietà replica che nessuna trattativa decente è possibile con lavoratori che hanno cominciato la loro azione distruggendo a colpi di accetta mezzo reparto rotative, provocando danni immediati per almeno 3 miliardi. L'episodio del Post è ben rappresentativo della durezza di taluni rapporti sindacali negli Usa e in particolare della battaglia in corso nel mondo della stampa scritta per uscire da una crisi diffusa, e che vede nei costi del lavoro — secondo i proprietari — o negli errori di gestione — secondo i sindacati — le sue radici occasionali (le radici di fondo vanno naturalmente oltre e si innestano in una situazione concorrenziale sempre più favorevole alla televisione, alla crisi economica generale, agli aumenti di tutte le uscite). Ad aggravare l'inconciliabilità delle posizioni interviene naturalmente l'importanza del giornale, che sta facendo dello sciopero del Post un caso al quale guarda tutta la stampa quotidiana americana. Per resistere alla pressione del sindacato, la direzione del Post ha mobilitato ogni mezzo, approfittando dell'isolamento nel quale i rotativisti si trovano (nessun altro sindacato tipografico ne ha appoggiato l'azione). Con personale di fortuna, assunto giorno per giorno, servendosi di tutte le tipografie private in città e dintorni, la direzione è riuscita a stampare un simulacro di giornale per 28 dei 30 giorni di sciopero. Con un numero di pagine ridotto (da 28 a 36, contro le oltre 60 di media normale), notiziari di fortuna, spesso reportage poco aggiornati, il Post appare comunque in edicola tutti i giorni, ma la povertà della veste e del contenuto sta facendo sentire i suoi effetti. Gli inserzionisti pubblicitari, ai quali ben poco importa delle vicende interne del quotidiano e che soltanto guardano alla efficacia del veicolo giornalistico per i loro prodotti, si stanno lentamente spostando sull'altro quotidiano di Washington, il moderato-repubblicano Washington Star-News, un giornale del pomeriggio che negli scorsi mesi stava soffocando sotto la concorrenza insostenibile del Post (di tendenze assai più progressiste). Durante il mese di ottobre, lo Star News ha aumentato la sua tiratura normale (360 mila copie) di circa 100 mila unità, conoscendo al tempo stesso un incremento di incassi pubblicitari del 90 per cento. «Non vogliamo prosperare sulle disgrazie del Post » ha detto il proprietario-direttore dello Star News, ma le rotative del suo giornale viaggiano a tutto vapore, cercando di conquistare lettori e inserzionisti permanenti e sollevare il quotidiano da una crisi che ne stava seriamente minacciando l'esistenza. V'è chi sospetta anche un « benign neglect», una benevola indifferenza del governo e dei suoi mediatori per le disgrazie del Post che, con la sua politica editoriale critica e tagliente verso la Casa Bianca è certo assai meno gradito all'amministrazione del blando e amichevole Star News. Una parte del sindacato rotativisti ha addotto proprio ragioni «politiche» per denunciare lo sciopero e attraversare i picchetti per tornare al lavoro e, nonostante la sorveglianza della polizia, vari episodi di violenza sono avvenuti all'ingresso del Washington Post. La proprietà appare convinta che resistendo ad oltranza la decisione degli scioperanti finirà per erodersi, di fronte ai danni individuali e generali che l'agitazione provoca. Secondo i legali del Post, che stanno conducendo in tribunale la vertenza, oltre i 3 miliardi in danni materiali, il giornale ha subito oltre 5 miliardi di danni in mancati introiti pubblicitari. In tutto, il g1bstdstcepervmpsnnpnplcsamevcgsau giornale chiede ai sindacati 10 miliardi di lire «come rimborso e punizione». La gravità del conflitto, che sta di fatto privando la capitale della più autorevole voce di opposizione all'amministrazione Ford, non si può naturalmente spiegare (le richieste dei rotativisti sono elevate, aumenti intorno al 15 per cento ed altro, ma non enormi nella economia generale del quotidiano) se non è vista nel contesto di questo momento tesissimo nei rapporti proprietà-lavoro nella stampa scritta. Tensione che nasce dalla spinta alla «razionalizzazione tecnologica» dei processi di produzione giornalistica (attraverso il computer), secondo la proprietà la sola risposta valida alla crisi della stampa; secondo i sindacati, o piuttosto secondo alcuni, l'ennesimo stratagemma per ridurre l'occupazione e i costi del lavoro. Di certo v'è che — perdurando il braccio di ferro — la crisi si aggrava e per la loro sopravvi¬ venza anche i migliori quotidiani come il Washington Post devono dipendere sempre più dai redditi delle stazioni televisive che essi gestiscono, dove l'autonomia dell'informazione è minacciata dagli enormi interessi commerciali che premono sul video. Vittorio Zucconi

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