Macario oltre le "donnine,, di Francesco Rosso

Macario oltre le "donnine,, COME SI DIVERTIVANO GLI ITALIANI NEGLI ANNI TRENTA Macario oltre le "donnine,, "Erano la cornice sfarzosa per uno spettacolo che aveva anche altri meriti, primo il mio personaggio" - Il comico dimostra una inesauribile vitalità e afferma di stare sempre "dalla parte del pubblico" - Il vagabondo sentimentale esule sulla luna Nel gran vertice del revival c'è dentro anche Macario, eccome. Chi più di lui può dirci come si divertivano gli italiani negli Anni Trenta, visto che già allora egli era protagonista sulla ribalta sfarzosa di orpelli della rivista? La sua memoria, su cui gli anni sono passati senea incidere, è un valido aiuto per capire qualcosa del mondo in cui il fascismo era il deus ex machina di ogni manifestazione e gli attori, se volevano restare a galla, dovevano adeguarsi al conformismo imperante, accontentandosi di timidissime allusioni ironiche, spesso colpite anch'esse dagli anatemi del Mìnculpop, al cattivo gusto del regime imperante, oppure mettersi da parte. La rivista era, allora, lo spettacolo di maggior attrazione. Aveva soppiantato l'operetta, correva agile sulle ali di canzonette e couplets musicali subito memorizzati dai « garzoni di fornai », che in quei tempi esprimevano la facile melomania degli italiani dal momento che trasportavano a spalla, o su sgangherate biciclette, gerle ricolme di pane dalla crosta dorata fischiando le canzoni appena eseguite che so, da Isa Bluette o da Anna Fougez. Essere fischiettati all'alba dai «garzoni di fornaio» equivaleva per un canzonettiere di allora sfondare in Tv per un suo collega odierno. Lo vedi come sei E come le canzoni, anche le battute dei comici passavano di bocca in bocca, diventavano luoghi comuni, ripetuti fino a diventare insopportabili. La canzone «Vivere» fu talmente cantata, come « Solo per te Lucia » del film La Canzone del l'amore, che finirono per essere credute ìettatrici. Per certi aspetti, Macario non sfuggì alla moda dei tempi, la sua battuta « Lo vedi come sei » costellò le conversazioni spiritose, o presunte tali, di studenti e sartine, di seri professionisti e portinaie. « Era diventata un'epidemia — ricorda oggi Macario — al punto che non si poteva più pronunciare quella frase, per nessun motivo. Una sera, al teatro Eliseo di Roma, andò in scena uno spettacolo drammatico di cui non ricordo il titolo. Protagonista era Andreina Pagnani e la sera del debutto, durante una scena di adulterio, disse all'amante: " Ecco, lo vedi come sei? ". Fu una risata da far crollare il soffitto; la battuta fu subito corretta, o eliminata ». Ma da dove nascevano battute tali da caratterizzare un personaggio, un attore, per decenni? « Non saprei dirle come sia nata " Lo vedi come sei "; era il verso di una canzonetta dal titolo " Il gigolò ". Mi piacque, l'adottai nelle battute improvvisate, divenne il mio marchio di fabbrica, come " Ti ha piaciato " per Petrolini, oppure " Siamo uomini o caporali " per Totò ». Non le sembra che la genI te si accontentasse di pochiI no, fosse, cioè, di bocca buo¬ na? « Proprio no, allora la gente rideva cercando signi- ficati anche dove non ve n'erano. Sempre a proposito di quella battuta divenne ce- tore, ed eravamo in clima imperiale, una barzelletta su Ciano. Si raccontava che gli avessero mandato una zucca dentro la quale il " Gran Genero " trovò un biglietto con su scritto: " Lo vedi come sei". Ho riso anch'io quando me l'hanno raccontata ». Siamo nel suo camerino di teatro, dove si veste per la commedia Due sul pianerottolo, quattro milioni e mezzo in media d'incasso per sera, una vitalità teatrale incredibile: anche allora il pubblico rispondeva così al richiamo di Macario? « Sempre, perché stavo col pubblico, dalla sua parte. Dicono che ho avuto successo per merito delle mie " donnine ", e questo mi fa rabbia perché c'era qualcos'altro nei miei spettacoli, ed era il mio personaggio. Per due anni gli studenti d'Italia, e non soltanto loro, hanno parlato come parlavo io in palcoscenico, aggiun¬ gendo una enne dove meno ei doveva entrare. Dicevo Mancanrio, bincincletta, e la gente si sganasciava, ripete- va questi semplici giochi pronunciando come facevo io una enne nasale in più ». D'accordo, era un segno di popolarità, ma anche il se- gno di un umorismo un po' corrente; non c'erano tenta¬ e gi di un gioco più sofisticato che tendesse a livelli d'arte più rispondente ad un gusto, diciamo europeo, che si faceva sentire anche da noi, nonostante le censure le chiusure fasciste? In quegli anni Campanile in ventava il Teatro dell'assurdo precedendo di un tren tennio i Beckett ed i Ione sco; Manzi, Mosca. Guare schi. Simili con il Marc'Aure lio prima ed il Bertoldo poi, hanno inventato un linguag gio differente da quello conformista dell'epoca. Lazzi e balli « D'accordo, ma la rivista non si adattava a quel lin- 5lia.5!Ì°'.?5:r._^erÌ..!llc.cls.S0 doveva arrivare direttamen te al pubblico. Il nostro teatro leggero non era ancora imbevuto di linguaggio d'arte, cantava, ballava, lanciava lazzi talvolta grossolani, talvolta contenuti. Era una for- ma ammodernata della Corn media dell'Arte, spesso e stemporanea, che si reggeva soprattutto sull'abilità del comico, oltre che sulle pi roette, sui costumi e sulla ; voce delle soubrettes. Il coi mico doveva saper trovare I la chiave giusta per incatej nare la platea, ed anche il I loggione, s'intende ». j E secondo lei, per quel \ tempo, qual era la chiave giusta? « Se devo giudicare da me, era la correttezza nel linguaggio, l'eleganza, la modestia, la grazia nel dire certe battute, senza pronunciarle mai completamente, scivolando sul finire per lasciare al pubblico il piacere di completarne il significato ». Questa è pura tecnica, ma come faceva lei a capire ciò che, allora, in quegli anni particolarissimi, poteva piacere al pubblico? « Vivevo in mezzo alla gente, ne sentivo le reazioni. Nel 1927, ho esordito da protagonista con Isa Bluette ed ho im- I parato da quella grandissi ! ma attrice alcune cose fondamentali, prima fra tutte s e i o e il principio che in scena ci devono essere molte donne, possibilmente belle, e pochissimi uomini. Oggi ci sono i boys invece delle soubrettine, come allora chiamavamo le girls; ma fare la passerella in mezzo a venti I ragazze da far saltare il cuore ai centenari significava i chiudere lo spettacolo con I un grande applauso ed un successo assicurato per molte sere ». Dunque, le « donnine ii j Macario » non sono soltanto una malignità, sono esistite. « Ma certo, però non ; erano tutto; erano la cornii ce sfarzosa per uno spettacolo che aveva anche altri meriti; per esempio, di avere | me come interprete princi' pale. E non lo dico per vanità, badi, conosco i miei limiti, ma se ho avuto sue cesso per tanti anni, qualcosa devo pur valere ». Certo; non sarei qui a parj larle se non fossi convinto I che lei è stato un protagoI riista del mondo che voglia| mo riesumare, ma quel sueI cesso non è dovuto in parte anche alle .sue collaboratrici? « Quali, ad esempio? ». | Ad esempio, Wanda Osiris. ! « Non voglio togliere nulla I a Wanda, ma su di lei biso; gna intendersi. Intanto è dij ventata un mito nel dopoguerra; non c'erano più il duce, il re, il principe cui ; appoggiarsi, e la gente ha ; scelto la Wanda, che è di; ventata " La Wandissima '. | Perché lo sia diventata, non j lo so; ci sono altre venti i soubrettes lanciate da me, Olga Villi, Sandra Mondaini, Flora Lillo. Dorian Gray, Marisa del Frate, Lauretta Masiero, che sanno cantare, recitare, ballare come la Wanda nemmeno si sognava; ma non hanno avuto il suo successo. Va a capire perché; forse non si circondavano di tanti boys, come la Wan dissima ». Il pubblico di allora era di più facile contentatura ii quello odierno, mi sembra. « Non direi, aveva solo gusti diversi perché viveva in un'epoca differente. Il permissivismo di oggi era allora impensabile, ed una battuta con doppiosenso, che alludesse che so, alle grazie nascoste delle donne, era già un'audacia. Oggi si dissacra tutto, da Molière a Goldoni a Shakespeare, realizzando spettacoli che vanno bene per un'eoe chiusa e limitatissima. Anche allora si facevano esperimenti audaci, Anton Giulio Bragaglia, nonostante la xenofobia fascista, riusciva a mettere in scena spettacoli di livello internazionale, ma rispettando il testo e le intenzioni dell'autore ». Ma il pubblico che veniva alla rivista, com'era? « Non diverso da quello di oggi. Allora aveva meno distrazioni; Tv, cinema, comuni teatrali, gare di calcio attraggono oggi le masse che allora trovavano svago quasi esclusivamente nel teatro; e se la gente voleva ridere, veniva alla rivista. Appagava gli occhi con lo sfarzo delle scene e dei costumi, trovava nel lusso fittizio delle piume e dei lustrini un appagamento al suo desiderio di eleganza ». Non erano spettacoli diseducativi? « Dati i tempi, direi di no. Era significativo che in un'epoca dei petti in fuori e del passo dell'oca, la gente cercasse conforto nei toni sentimentali che noi gli davamo coi nostri spettacoli leggeri. Nella rivista Le educande di San Babila raccontavo le mie pene alla luna, e la luna falcata si abbassava, mi agganciava con uno dei suoi corni, mi portava in alto, mi liberava. Volta a volta era il vagabondo, lo spazzacamino, quello che poi fu definito "barbone", ed erano personaggi che piacevano al pubblico che si commoveva alle mie battute, alla semplicità di un'esistenza libera di uomo che aveva il mondo per casa e si lavava il volto con la rugiada o con la pioggia. De Amicis se vuole, ma per il tempo aveva un significato che andava oltre il fragile spessore del personaggio teatrale ». Era già fronda al regime, secondo lei? « Inconsciamente, forse lo era, ed il regime capiva il pericolo, al punto che, proprio nelle Educande di San Babila, do¬ vetti mutare il verso di una canzonetta solo perché diceva: "Un giorno le nubi passeran ". Eravamo già vicini alla guerra, e pareva che alludessi alla libertà prossima ». Mai tentato un po' di satira politica? « Chi si consentiva di sgarrare dal copione vistato dal Minculpop poteva abbassare definitivamente il sipario. Persino le canzoni burlesche erano sospette; lasciamo da parte " Faccetta nera ", ma " Il tamburo principal della banda d'Afrori " non piacque per niente al regime, perché in quella grancassa si pensò fosse ravvisato il duce. E non lo era, badi. Qualche volta si poteva fare un po' di fronda giocando sui doppisensi parlando delle " inique sanzioni ", del negus buonanima, facendo in modo che il pubblico sentisse simpatia per il bersaglio dì quelle frecce spuntate. Ma arrivava subito il richiamo ». Arriva il jazz Quindi, solamente evasione tra le quinte di spettacoli sfarzosi. « Per la rivista era così; al massimo si tentava di gettare un'occhiaI ta sul mondo di fuori. Quan! do ho presentato Hockla! bama, volevo far capire anI che che l'esotismo non era ■ soltanto danza e canto, ma ; c'era tutto un mondo in fer: mento che noi ignoravamo, j Con " Follie d'America " ho ! presentato uno spaccato di | New York ben lontano dal ! cliché che ci dava il regime; j bastava il manifesto di Boc; casile, coi grattacieli svettanti nel cielo, io seduto sul I cornicione vertiginoso di una I di quelle costruzioni, con le | gambe della Wanda che arrivavano all'ultimo piano per I capire che non si trattava ! solo di un gioco scenico; a | la musica americana, il jazz che già si diffondeva alle pìccole dixiland bands, parti ' proprio dai couplets di quelI la rivista. Come vede, non | eravamo proprio al teatrino I di regime ». I Francesco Rosso

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