Come si rifà Monteverdi di Massimo Mila

Come si rifà Monteverdi "L'incoronazione di Poppea„ a Treviso Come si rifà Monteverdi Il capolavoro del musicista con le scene di Zancanaro e la regìa di Sylvano Bussotti (Dal nostro inviato speciale) Treviso, 16 ottobre. Fra i teatri cosiddetti «di tradizione», ossia quelli che non si fregiano del rango (e dei privilegi) di «enti lirici», il Comunale di Treviso è, insieme col Regio di Parma, uno di quelli che, per vivacità d'iniziative e saggezza di conduzione, talvolta danno dei punti agli orgogliosi rivali di serie A. L'anno scorso, per il cinquantesimo anniversario della morte di Puccini, sparò l'esecuzione completa di tutte le sue opere teatrali, dalle Villi a Turandot. Quest'anno ha in cartellone nientemeno che Rigoletto, Trovatore e Traviata, che i grandi teatri sempre meno osano affrontare, trovando più comodo gingillarsi con la riscoperta delle opere minori, la cui esecuzione non presta il fianco a confronti imbarazzanti. Questo teatro segue la tattica di piazzare l'osso duro di ogni cartellone — vuoi che si tratti della necessaria opera moderna, vuoi che si tratti d'opera antica di forte impegno culturale — all'inizio della stagione: tanto — pensano giustamente — all'inaugurazione la gente ci viene ugualmente perché è l'inaugurazione; con i Rigoletti, le Carmen, le Butterfly il pubblico siamo sicuri d'averlo in qualunque momento. Così quest'anno la stagione si è aperta con L'incoronazione di Poppea, ultimo capolavoro di Claudio Monteverdi e capostipite del moderno teatro d'opera. Certo, bisogna riconoscere che è un'opera difficile da eseguire, e anche di non facile ascolto. Le difficoltà cominciano già al momento di mettere le parti sui leggìi. L'opera ci è giunta con quel sistema di scrittura compendiata che forniva soltanto il canto e il basso continuo. Eseguirla così sarebbe follia. L'opera va eseguita in una trascrizione moderna che «realizzi» le possibilità implicite nel bassocontinuo. Come si deve fare quest'operazione se si sceglie di farla ex novo? o quale scegliere tra le realizzazioni finora proposte? A Treviso hanno scelto naturalmente quella di Malipiero, che qui era il nume indigete: non quella scientifica per l'edizione delle opere complete di Monteverdi, ma quella ch'egli aveva apprestato più tardi, a scopo di esecuzione teatrale, realizzando da par suo il basso, con abbondanza d'invenzioni strumentali. Ma Malipiero diffidava della pazienza del pubblico; in più, non amava il libretto, sgangherato sì, e sensazionalistico, ma assai abile, di Francesco Busenello. Perciò apportò nella versione teatrale tagli alquanto drastici, che sacrificano molta musica buona, sopprimono qualche personaggio minore e ne compromettono irrimediabilmente uno dei maggiori, Ottone, sfortunato marito della protagonista. Questa accetta con entusiasmo l'invito dell'imperatore ad entrare nel suo talamo e, una volta ch'egli abbia ripudiato la moglie Ottavia e fatto fuori quel noioso pedante di Seneca, a cingere la corona imperiale, mentre d'altra corona si cinge la fronte il povero Ottone. Nel guazzabuglio combinato da Busenello resta qualcosa del torbido clima imperiale illustrato da Svetonio, e la grandezza di Monteverdi sta nell'averlo assunto e fissato in musica, producendo l'opera più machiavellica che si conosca, nella sua impassibile lettura dei vizi umani e del valore, tetragona a qualsiasi tentazione moralistica. «Cosi sono gli uomini», sembra dire questa musica, declinando ogni responsabilità, mentre mostra la fatuità incosciente dell'istrionesco imperatore, o l'eroismo di Seneca e la me schinità dei suoi discepoli, o l'animalesca ambizione di quella cara puttanella di Poppea, così ben guidata dalla nutrice e ruffiana Arnalta, o l'eros proletario d'una serva e d'un valletto che amoreggiano in un angolo mentre i grandi fanno i loro affari in primo piano. Certamente le forme musicali sono paludate nel lento passo d'un residuo di recitar cantando, e non hanno la duttile astuzia narrativa che l'opera avrebbe in seguito appreso. Ma una volta superato il peso del prologo mitologico (che qui si è voluto ripristinare, mentre Malipiero lo aveva espunto), l'invenzione musicale comincia a compiere tali passi dagigante che non è possibile restare insensibili a tanta forza di espressione teatrale. Le difficoltà d'esecuzione continuano nel campo dell'interpretazione vocale. D'accordo, è una fola snobistica ed estetizzante che nelle opere di Monteverdi si debba evitare ogni realismo di espressione degli affetti: specialmente in quest'opera, figurarsi! così sostanziata di realistica osservazione dell'uomo. E non di questo riprenderemo i cantanti che qui l'hanno interpretata: Margherita.. Rinaldi ha fatto benissimo a mettere impeto, passione e civetteria nei due duetti con Nerone (il tenore William Me Kinney). Ma è sul piano della sicurezza dell'intonazione e dell'agilità nei vocalizzi che quasi tutta la compagnia lascia un po' a desiderare, salvandosene incerta misura Silvana Mazzieri come Arnalta, e in larghissima misura il basso Giancarlo Luccardi, che, quale scultoreo Seneca, è stato un poco il trionfatore della serata sul palcoscenico. In orchestra, merito grande di Angelo Ephrikian, che ha guidato l'esecuzione con sapienza di musicologo e con esperienza artistica. Ma l'asso nella manica dello spettacolo è stato la realizzazione scenica. Costretto a cimentarsi con la magnificenza scenografica del Seicento, il Comunale non ha voluto limitarsi alla solita quaresima di scene allusive e sintetiche, ma ha preferito prendere il toro per le corna, affidandosi alla fantasia di Tono Zancanaro per le scene e di Sylvano Bussotti per la regìa (con partecipazione all'invenzione dei costumi). Occorre elogiarli e nominarli insieme, tanto concorde è stata la loro riu- scita nella ricreazione d'un fa-1 stoso barocco rivisitato con spirito moderno, senz'ombra di arcaismo. Tipicamente «toniche» — cioè di Tono Zancanaro — certe scene di esterni, cespugliose, a macchie, come le sue indimenticabili incisioni sull'alluvione del Polesine; e piene di antica civiltà veneta, modernamente rivissuta, le frequenti allusioni palladiane e vicentine nelle scene di fab-1 bricati. Ma nei grovigli di li- ' nee dei siparietti, con quella 1 proliferazione di grandi facce ,boopidi, sembra di scorgere anche lo zampino dell'estro grafico di Bussotti, che come tutti sanno è disegnatore scal- tritissimo. In ogni caso, che ! piacere vedere finalmente ! tante scene dipinte, ed egre-1 giamente dipinte, invece dei |soliti squallidi elementi archi- !tettonici spostati qua e là da ìun atto all'altro, come oggi;usa! jAnche la realizzazione tee- !nica delle scene, spesso mac- '. chinose, è stata degna d'un grande teatro, consentendo rapidissimi ed ingegnosi cambiamenti a vista. Unico neo dello spettacolo, le superflue evoluzioni di tre danzatori che si sono volute sovrapporre ai ritornelli strumentali (e non solo a quelli); annullandone così la sapiente funzione di stacco calcolata da Monteverdi. Ma anche di questo elemento negativo, quale partito «a saputo trarre Bussotti al meno una volta, nella raffigu razione plastica e cinetica della voluttuosa «aria del sonno» cantata dalla nutrice Arnalta! Lieto successo: il pubblico, che forse in principio temeva di annoiarsi, è stato preso a poco a poco dalla magìa dello spettacolo e dalla forza della musica monteverdiana, ed ha finito per applaudire a lungo gli artisti, insieme col mae stro Ephrikian e il maestro del coro Vittorio Barbieri e i due fantasiosi inventori dello spettacolo visivo. ^ Massimo Mila

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