Ho incontrato il cancro di Gianni Granzotto

Ho incontrato il cancro GORRESIO RACCONTA LA SUA STORIA DI MALATO Ho incontrato il cancro Tutto è cominciato lunedì 5 maggio, 154" anniversario della morte di Napoleone e giorno di san Pellegrino. Quella sera mi sarebbe piaciuto andare da Mondadori a festeggiare l'uscita di uri libro di Gianni Granzotto sulla battaglia di Lepanto e, dopo, a un altro intrattenimento letterario in casa di Domietta Hcrcolani in onore dell'ultimo romanzo di Enzo Siciliano, La notte matriglia, apparso da Rizzoli. Ma poi tra il cocktail da Mondadori e la cena in piedi chez Domietta mi si infilò l'impedimento di un terzo impegno: d'autorità ed urgenza il mio dentista professor X mi aveva fissato proprio per quelle ore di sera, diciamo tra le sette e le nove, un appuntamento con il più stimato maxilochirurgo di Roma, e forse d'Italia. Io avevo la gengiva inferiore sinistra gonfia e dolente da una settimana: «E' una cosa da nulla — mi aveva detto il dentista a mezzogiorno — ma prima di metterci le mani voglio che la veda il professor Y. Lei deve andarci oggi stesso. Sa come dicono a Roma? Questa è roba che va cotta e mangiata. Subito subito ». Nel salotti no del professor Y aspettai lungamente. Ero solo, con quattro seggiole imbottite attorno a un tavolo impiallacciato cosparso di rotocalchi che erano stati letti o sfogliati da molta gente, a giudicare dal cattivo loro stato di conservazione, tutti logori frusti c spiegazzati con le orecchiette. Il più recente, del resto, era vecchio di sette settimane e gli mancavano le tre pagine, da 20 a 22, che l'indice segnava dedicate a un'inchiesta di Lorenzo Vincenti sul tema delle probabili o improbabili seconde nozze di Fanfani. Tale ipotetico evento aveva dunque indotto un ignoto paziente mio predecessore nel salottino a strappare, piegare in quattro e nascondersi in tasca larghi fogli stampati con notizie e illustrazioni al riguardo. Uno che vada a consultare un maxilochirurgo non dovrebbe cedere a tentazioni del genere; lorse però ero frivolo anche io se nell'uguale circostanza stavo perdendomi in vane osservazioni, mentre ben altro era sospeso su di me. « Signor Gorresio — incominciò difatti finalmente l'anziano prolessore addolorato e iterativo — signor Gorrcsio...». Mi pareva che fosse talmente preoccupato per me che mi sentivo in dovere di rassicurarlo incoraggiandolo a parlare liberamente. Neoplasia, epitelioma, linfonodi, tumori, betatrone, medicina nucleare, alto voltaggio, irradiazioni, bombardamento, raggi I, raggi gamma e ionizzanti, simulatore di terapia, cobalto, cesio, piombo, wolframio, uranio: cancro! La sequenza delle spiegazioni del professor Y. non fu di certo esattamente questa, ma a me evocava il ritmo assurdo dei radiocronisti che descrivono azioni di calcio culminanti in un goal. In ogni modo solo questo afferravo e capivo: cancro e nicnt'altro. E invece, forse a prova di rispetto per la solenne maestà del male che primeggia su tutti gli altri nel mondo e appare sacro in quanto inesorabile, il professor Y. non lo chiamava mai per nome ma gli girava attorno con le perifrasi e i sinonimi scientifici, come gli spensierati botanici che battezzano in latino fiori, frutti e legumi: Petroselimtm crispum per dire prezzemolo, ad esempio. Insomma, «Cancro» dovetti dirlo io ad un certo punto, affettando, ostentando, spacciando calma e cognizione. Il professore aprì le braccia per annuire ed il suo sguardo mesto e affettuoso pareva mi chiedesse tutta la comprensione di cui ero capace. Era tanto partecipe ed afflitto che mi sentivo quasi in colpa io e in dovere di farmi perdonare. Ripensandoci adesso, del 5 maggio ho il ricordo di una quasi commedia, con ripetute riverenze al prolessore, e scuse e molti « mi perdoni » se lo disturbavo domandandogli informazioni sulla durata, sul costo, e previsioni sui risultati delle cure raccomandabili. Se era commedia, tuttavia, io non vi recitavo la parte del malato ma quella di chi è andato a intervistare un'autorità della scienza sul tema sempre attuale e universale «Progressi e Prospettive della Lotta contro i Tumori». Che poi lossi io stesso ad avere il cancro, cercavo di non metterlo nel conto, e infatti mi vedevo e mi sentivo spettatore estraneo, e controllandomi bene dall'esterno mi riconoscevo professionalmente giusto, a posto, sia per la precisione che ponevo nell'interrogare e sia per la freddezza nel registrare le risposte. « Diciamo cancro, tanto per chiamarlo con il suo nome », avevo incominciato un po' brusco, ma senza metterci emozione e tanto meno desiderio di dar lezioni di anticonformismo e non-ipocrisia. Un puro caso, d'altra parte, aveva concorso ad aiutarmi a conservare un distacco mondano disinvolto, quasi elegante. Quando ero stato ad aspettare di là nel salottino mi era capitato di leggere su uno di quei rotocalchi una buona battuta di Humphrcy Bogart, raccolta da Tullio Kezich nel suo libro Bogart Blues (ed. Quadragono Libri. Concgliano): «Perché se ne parla a bassa voce? In fin dei conti ho il cancro, non una malattia venerea ». Bisognava dunque parlarne ragionevolmente, senza vergogna, ed anche senza quella superstizione da ignoranza che farebbe definire la sorte degli uomini secondo un'elementare distinzione manichea cancro sì e cancro no, non cancro uguale salvamento e cancro uguale dannazione: come se si morisse solo di cancro a questo mondo, dove del pari non si vive di solo pane. Quindi filosofavo molto agevolmente. La morte c'è per tutti, la morte ha uno sguardo per tutti («verrà la morte e avrà i tuoi occhi », diceva Pavese) noi camminiamo sempre sul filo teso come equilibristi nel circo, e sotto non c'è rete. E tutti infatti avvertono continuamente che bisogna tenersi pronti perché ogni momento può essere quello buono, e tanto i moralisti quanto gli immoralisti in tutti i tempi si sono procurati celebrità e fortuna con il notturno memento mori dei Irati della Trappa; con la poco allettante alternativa di Hossuet e santa Teresa uitt pati aut mori; con la puritana affermazione di Gide che la prima virtù dell'uomo consiste nel saper affrontare la morte: « Bisogna domandarsi: sono davvero pronto a morire? e bisogna potersi rispondere sì ». Che la letteratura al riguardo sia sterminata, naturalmente lo sapevo da prima, ma si ha un bel dire: prima che il professor Y. scoprisse il cancro nella mia mandibola, in realtà non avevo ancora mai percepito quanto vicina e assillante e ossessiva sia la presenza della morte. Inaspettata, affiora d'improvviso in un suo modo tanto naturale che nemmeno sorprende. In quei giorni leggevo In Stahlgewittern di Ernst )ùnger, il più bel libro di guerra che io conosca, di una buona fede, di una veracità, di una onestà perfette: ebbene, avuta la nozione del mio cancro mi parve d'essere io stesso uno di quei soldati, ormai venuti in tale dimestichezza con la morte da non potersi più nemmeno chiamare sopravvissuti ma solo sopravviventi, che la più provvisorio. Se poi andavo per poesie, come mi piace, anche tra Baudelaire e Verlaine non incontravo che cadaveri, magari uno di quelli già coi vermi di Spleen et idéal, od almeno incappavo in ammonimenti col malaugurio implicito: « Ticns ton "ime prète à ce jour ultime ». Insomma intendo dire che letture insospettabili, cioè della più varia e più distratta ispirazione, inesorabilmente mi alimentavano dentro l'idea di una morte alla mano, che al meglio, ormai, era l'idea irrisoria di una morte-diavoletto che si divertiva a pungermi la lingua, tirarmi il pelo, farmi il solletico. Da ragazzo avevo visto rappresentato nel Teatro degli Indipendenti di A. G. Bragaglia in via degli Avignoncsi a Roma l'atto unico di Pirandello L'uomo da! fiore in bocca. Mi era molto piaciuto, poeticamente parlando, ma adesso mi pareva terribilmente scritto per me: « La morte, capisci? è passata. M'ha ficcato questo fiore in bocca e m'ha detto: Tientclo, caro; ripasserò fra otto o dicci mesi ». Il fiore che aveva in bocca il protagonista di Pirandello era un « bel tubero violaceo », mezzo nascosto sotto un baffo: «Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo, più dolce di una caramella: epitelioma si chiama. Pronunzi, sentirà che dolcezza: epitelioma ». Il mio non era un tubero, né aveva colore violaceo, e forse non quel nome dolcissimo, ma comunque faceva la sua parte di annunciatore della morte in modo anche più subdolo perché si era installato chi sa da quanto tempo nell'osso prima di rivelarsi espandendosi all'attacco delle mucose e dei tessuti molli orali circostanti. «Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti schifosi che qualcuno si scopre inopinatamente addosso... Lei passa per via, un altro passante all'improvviso la ferma e cauto con due dita protese le dice: Scusi, permette? Lei, egregio signore, ci ha la morte addosso. E con quelle due dita protese la piglia e la butta via... Sarebbe magnifico! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, torse ce l'hanno addosso e nessuno la vede ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e dopodomani e domani l'altro ancora». Ma, se sapessero la verità ? Provate un poco a immaginarli, la sera « spogliarsi placidi placidi per mettersi a letto, ripiegare gli abiti, mettere le scarpe fuori dell'uscio, e cacciandosi sotto le coperte godere del candor fresco delle lenzuola di bucato, con la coscienza che fra poco sarebbero morti ». Questo sarebbe dunque dovuto essere il mio caso a partire dal 5 maggio, dopo il lungo colloquio col professor Y. durante il quale mi ero comportato, oso dirlo, assai decentemente. Ma non per questo mi sentivo pronto «à l'heurc ultime». Riconoscevo, umilmente, di non possedere quella che Gide afferma essere la prima virtù dell'uomo, e non avendo aneliti al disfacimento non mi veniva fatto di identificarmi con «le mort libre et joyeux » di Baudelaire che se la intende con i vermi («() vermi! neri compagni senza orecchi e senza occhi, vediate venire a voi un morto libero e gioioso»). Tutto al contrario, senza neanche sapere di che cosa sia fatto, io mi sentivo in corpo, in gola, il gusto della vita, un gusto che mai ci si cava perché la vita è tanto ingorda di se stessa che non si lascia assaporare quando la si vive. Ma indubbiamente il gusto rimane attraverso il tempo, ed i ricordi hanno sapore, anche se banali e meschini, ed è il passato che ci lega chi sa a che cosa, magari a futilità e illusioni insulse, a noie ed a sciocchezze, ma è quanto basta per farci disperare alla idea che ad un tratto si può perdere tutto. Pure se onestamente si riconosce la vanità della vita non si esclude difatti il rimpianto, e ne deriva una contrapposizione drammatica che produce furore anche in persone miti, spingendole a ribellarsi contro un'ingiustizia. Tutto sommato, il miglior consiglio che l'esperienza del mio 5 maggio mi suggerisce è non prestare fede, non crederci. Io con bel garbo lasciavo che il prolessor Y. dicesse la sua (« Signor Gorrcsio, a questo punto non ho dubbi, anche gli esami istologici sono superflui, purtroppo è più che sufficiente la diagnosi a vista ») ma sotto sotto ce la mettevo tutta per costruirmi una mia privata convinzione che cancro non fosse, o per lo meno che non era del tipo inesorabile, e quindi stava sul piatto buono della bilancia statistica delle guarigioni.

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