l 500 giorni di Giscard

l 500 giorni di Giscard PRIMO BILANCIO D'UNA PRESIDENZA "DIVERSA. l 500 giorni di Giscard Ha mantenuto a metà la promessa di scuotere una Francia immobile - Ha cambiato stile rinnovato con prudenza la politica estera - Restano da tentare le riforme dell'economia e , inciso sul costume, del quadro politico (Dal nostro corrispondente> Parigi, ottobre. Valéry Giscard d'Estaing aveva chiesto ai francesi di giudicarlo solo dopo cinquecento giorni di « regno ». Scaduto il tempo, scorrono adesso sondaggi, giudizi, in un fiume che si gonfia. Ma non direi che ciò porta luce al suo personaggio, né alla scena che domina. I ritratti sono banali, pieni di luoghi cornimi. I sondaggi dicono che la sua popolarità è diminuita del dui per cento, che piace la sua politica di «dialogo», meno la sua politica economica, per nulla la sua politica estera. Sono però cose che lasciano il tempo che trovano; per di più, possono cambiare da un giorno all'altro. Ciò che si percepisce, piuttosto, è come resti ancora buia la sua presidenza, la sua Francia. Durano nell'aria le stesse domande di cinquecento giorni fa. Chi è davvero Giscard d'Estaing? Come muta con lui la Francia? La scommessa L'uomo avanzò, l'anno scorso, come un funambolo sul filo elettorale che ha tagliato la Francia in due. Promise che la sua politica sarebbe stata il « cambiamento », e cominciò così la attesa per vedere da che parte sarebbe scivolato. In effetti, la Francia pompidoliana era stata immobile, nonostante l'evoluzione economica, malgrado Pompidou fosse stato eletto sul doppio tema della continuità e dell'apertura. Il successore di De Gaulle aveva perseguito il grande disegno di trasformare il vecchio Paese agrìcolo in una forte nazione industriale, e di gareggiare con la Germania. Ma la «mutazione industriale» non aveva cambiato la vecchia Francia. Tutto era rimasto fermo, le leggi, i costumi, le idee. Il primo parametro del cambiamento giscardiano è stato quindi l'immobilismo di Pompidou. Pompidou gestiva la Francia in modo paternalista, dopo la gestione «ascetica» di De Gaulle. Alla nozione del « capo » aveva sostituito un'altra nozione autoritaria, sebbene più affabile: quella del « padre ». Strapazzava i ministri come scolari, sgridava i socialisti perché « incompetenti d'economia », s'arrabbiava contro i giovani contestatori « senza rispetto », proprio come \ un padre batacchiano. Era un ex professore, traumatizzato dal maggio '68, e che vedeva ovunque minacce per « la grande famiglia francese ». Poi c'era l'altro aspetto: quello dell'ex banchiere, anch'esso balzacchiano, cui piacevano gli affari e gli uomini d'affari. Diceva che « uno Stato non deve mai dirigere l'economia nazionale », e che « un governo deve solo secondare la legge del profitto ». Banchiere e professore si mescolavano così nel « padre », e nel pa¬ ternalismo di regime molto discusso. Alla fine della sua presidenza, Pompidou aveva finito col concedere tutto alla Francia tradizionale. Le lasciava coltivare il vecchio mito contadino dell'arricchirsi, il dogma umanistagiacobino d'essere nazioneguida dell'universo, la sfida antitedesca che piace alla destra industriale e alla sinistra radicale, la sfida antiamericana, il « rayonnement de la France ». Quando riempì Parigi di grattacieli orribili lo fece per indulgenza verso le grosse banche e per « farne il cuore di una nuova America chiamata Europa ». Quando scelse Jobert come ministro degli Esteri lo fece per compiacere « l'épicier du coin » contento che un francese « sapesse ancora dire all'America il fatto suo ». Il primo problema per Giscard d'Estaing è stato di « cambiare » tutto questo: che lui stesso, come braccio destro di Pompidou, aveva contribuito a consolidare. Ma è compito dei « delfini » fare il contrario dei re che li hanno allevati. Nei primi mesi di governo, il nuovo presidente si è quindi fatto carico di « modernizzare » e « aggiornare » la vecchia Francia con un « nuovo stile ». Il suo primo sforzo è stato di sostituire al presidente-capo dell'era gollista e al presidente-padre dell'epoca pompidoliana, l'immagine di un presidente-figlio. Andare a piedi, riformare l'etichetta, stringere la mano ai detenuti, essere « giovane », recarsi al cinema, portare i figli al ristorante, togliere i tamburi alla Marsigliese, farsi criticare come « dongiovanni », invitare gli spazzini a colazione, cenare in casa dei cittadini, sono state le azioni vistose di un programma politico che mescola una palese imitazione di Kennedy e quella dei re scandinavi. Ma in un primo tempo la Francia si è divertita. In un secondo tempo, s'è annoiata. Personalmente credo che il presidente abbia fatto tutto questo col fine politico di rompere il clima piccoloborghese di Pompidou. Ma un certo narcisismo gli ha preso la mano, poi, un certo americanismo, tipico della jeunesse dorée, ha fatto il resto. E' stato un suo errore affidare l'«aggiornamento » a consiglieri di Kennedy, come Pierre Salinger, che vive adesso nel mondo dell'Eliseo, e che l'hanno reso chiassoso, pubblicitario, talvolta ridicolo. E' stata distrutta l'autorità che aveva Pompidou senza creare una nuova immagine basata so- \ pra una insopprimibile virtù \ francese: quella della misura. Un gradino più su, nelle riforme cosiddette di costume, le cose sono andate meglio. Sono piovute sulla vecchia Francia le nuove leggi sull'aborto, sul divorzio, sul- \ la disciplina militare, sull'abolizione della censura politica, sull'ecologia, sull'indennità di licenziamento, che hanno messo in luce una certa vocazione « protestante » e « scandinava » del giovane presidente. Non si può certo parlare di una chiara scelta socialdemocratica della sua politica. Ma la vecchia tradizione del centrodestra francese riassunta nel « faìtes payer les pauvres » ha subito un arresto « lìberal-sociale ». Per far passare il cammello del suo « cambiamento » nella cruna dei conservatori che lo votano, Giscard d'Estaing ha certo dato fuoco a molte polveri, spesso annegando la sua figura di protestante scandinavo in una vecchia furbizia latina, da gattopardesco principe Salina, che « cambia le cose perché tutto resti com'è ». Senza la scure Il presidente ha liberalizzato le caserme tramite uno dei generali più militaristi, un vecchio para. Ha ridot to la pressione poliziesca con un ministro dell'Inter- no, il « principe Ponia », subito battezzato « l'ultimo file di Francia ». Ma l'operazione ha comunque funzionato, e la Francia è meno vecchia di ieri. Naturalmente non biso- gna pensare al riformismo \ \ s è immerso, giscardiano come a un coltello che taglia profondamente. In un momento in cui le socialdemocrazie nordiche, tedesche, o latine, pensano a rinnovarsi in modo più decisamente socialista, ripensando il loro compito di « gestire il capitali| smo », Giscard non va nella stessa direzione. Nel suo tentativo di rendere un po' scandinava la Francia, il presidente ha tenuto conto di certe regole della vecchia politica francese basata sulle coalizioni e il compromesso. Nel suo «cambiamento» c'è un ritornello di fondo: «Il faut de tout pour faire un monde ». E' stato un moralista che s'è ricordato che i veri legislatorifilosofi in Francia sono i moralisti che non hanno fissato alcun codice morale, alcuna regola sociale drastica. Ha sempre così sfumato le sue riforme per accontentare tutti, il campanile e la banca, il protezionismo agricolo e la pressione sindacale, l'audacia dei giovani e la prudenza dei vecchi. Resta comunque il fatto che non è stato l'uomo « delle duecento famiglie », che del resto non esistono più, e sono soltanto un mito dell'eloquenza radicale francese. Femminismo, modernismo, progressismo generico, ma che però dispiace ai conservatori, sono intrecciati ai cinquecento giorni trascorsi. Il funambolo avanza così sul filo, senza scivolare né da una parte né dall'altra, rassegnandosi a un «cambiamento limitato ». Lungo la strada lascia perdere le riforme più critiche, come quella dell'impresa, appena capisce che il terreno è minato. Oppure svuota di contenuto quelle più difficili, come la scuola, risolta in un pasticcio all'italiana. Solo in questi giorni s'è deciso a un primo vero confronto con la «struttura», sfidando il proprio elettorato con un progetto di legge fondiario che per la prima volta limita il diritto di proprietà in un Paese di quattro milioni di proprietari terrieri. Bisogna riconoscergli il coraggio, pensando che De Gaulle stesso divenne impopolare sette anni fa, solo accennando a un aumento della tassa di successione, provocando una fuga di capitali che fu poi all'origine della svalutazione del 1969. Ma bisogna vedere come uscirà il suo progetto dalla selva di emendamenti in cui Riformismo a parte, quale bilancio fare della sua politica in generale? Indubbiamente ha cercato il «cambiamento» dove ha potuto e, talvolta, anche dove non ha potuto. Ma spesso la farfalla non è uscita dal bozzolo, per una serie di complesse ragioni. La sua offerta di rapporti «anglosassoni » con l'opposizione s'è incrociata con i pesanti attacchi sferrati contro la sinistra dal « principe Ponia », suo braccio destro e suo Pigmalione polìtico, che anglosassoni non sono. N'è derivato allora un dialogo trasformista con le sinistre più deboli, che minaccia di riportare al parlamentarismo la Francia, e alla ricostruzione di « micro famiglie po| litiche » perpetuamente o- scillanti. Ha dato ai gollisti il sospetto di volerli sostituire coi socialisti, in un tempo lungo, facendoli arroccare intorno a Chirac, e costringendo quindi Giscard a convivere con questo suo «delfino» in una ferrea diarchia. Quanto alla politica economica, sono noti gl'incidenti di percorso subiti nel corso di un anno. Ha promesso « nuovi modi di sviluppo », le affascinanti formule sul «gestire l'imprevedibile». Ma queste esercitazioni accademiche, da allievo dell'Ena, si sono scontrate con la realtà di una crisi che non ha previsto e che dava per risolta. Costretto a smentirsi, risulta incrinato il suo famoso prestigio di « Cancelliere economico », perché la Francia, nuova o vecchia, contìnua a vivere nel culto dell'« amministrazione » che non sbagli i conti. Se il « changement » si rivela errore economico, amministrativo, e crolla il mito dello Stato-contabile, difficile è ottenere il perdono. La sua politica internazionale è indubbiamente al centro del bilancio. Perché qui le cose sono meno confuse, e si è certo capito che il suo cervello funziona più come quello di Schuman che come quello di De Gaulle o Pompidou. Con lui è cambiato il Quai d'Orsay dove, come diceva Marc Bloch, « non sono mai arrivate le partecipazioni della storia», e dai suoi tetti neri non s'alzano più le aquile antiatlantiche di De Gaulle o i passeri antitedeschi di Pompidou. E' vero che la Francia resta la nazione più nazione d'Europa. Altrettanto vero che resta l'occhio del ciclone nelle difficoltà d'intesa tra Europa e America. Ma le componenti del ragionamento francese sono cambiate soprattutto se si bada al « neogermanesimo » giscardiano. Idee di ieri Riprendendo le redini di una politica estera cristallizzata negli stereotipi pompidolìani, Giscard d'Estaing ha infatti riesaminato soprattutto i rapporti francotedeschi sostituendo alla visione gollista la visione schumaniana. Nel 1950, infatti, De Gaulle patrocinò una alleanza con Bonn, un Reno come « luogo d'incontro, non come fossato », sognando un'Unione europea im| perniata sulla « confederaI zione franco-tedesca » che si | opponesse al « satellitismo atlantico » e alla « ripartizione dei suoli di Yalta ». Dopo il '50 Schuman aveva invece portato questo « germanesimo » francese su linee completamente diverse, in un disegno europeo non neutralista, in « dialogo dialettico » con gli Stati Uniti, comunque dentro la cornice atlantica, e per questo era stato licenziato. Dovendo scegliere tra le due linee, Giscard d'Estaing ha scelto la seconda, contrariamente a Pompidou. Ed è da questa scelta che derivano la sua continua concertazione con Schmidt, i riavvicinamenti a Washington tramite Bonn, lo « spirito della Martinica », gl'incontri recenti con Schlesinger che, se non fanno tornare la Francia nella Nato, praticamente ve la inseriscono attraverso complicati negoziati sugli armamenti. Questo è il « cambiamento » essenziale, forse princii pale, operato nei cinquecenj to giorni, seppure sia un po' j « rétro » da parte di un giovane la facile riscoperta della Francia di Schuman. Ma il guaio è che, fra tutti i «cambiamenti», questo è anche il solo che Giscard, deve sbandierare meno, perché la Francia orgogliosa dell'v. épicier du coin » e delI l'operaio che cena con il : presidente considera queste j cose indegne del « rayonneI ment de la France ». Nel| l'armadio dell'operaio c'è inj fatti Marchais che non riI ceve Tindemans, in quello del farmacista di ClochemerI le c'è sempre un gollismo dato per morto, ma che fa maggioranza. Perciò Giscard d'Estaing deve contemporaneamente mascherare questo « changement » col lancio a ripetizione di « vertici », monetari e sull'energia, rischiando il fiasco diplomatico, o il rischio del fiasco. Certamente è un narcisista cui piace essere al centro del mondo. Ma soprattutto è un francese « scandinavo » che conosce la Francia, e il culto che vi si coltiva del « paese-guida dell'universo». C'è infatti un limite ad ogni suo rinnovamento, che rende difficile alla sua presidenza di precisarsi. Questo limite, come diceva Luthy, è che «la Francia d'oggi non è mai la Frav eia d'oggi. Perché la forzi più valida del suo avvenire è pur sempre il passato » Alberto Cavallari Il presidente Giscard visto da Levine (Copyright N. Y. Rcvtew of Hooks, Opera Mundi o per l'Italia La Stampa)