"Sedetti accanto a mio padre e gli sparai in petto e in bocca, poi mi mancò l'animo"

"Sedetti accanto a mio padre e gli sparai in petto e in bocca, poi mi mancò l'animo" In Assise il giovane che tentò il parricidio per l'eredità "Sedetti accanto a mio padre e gli sparai in petto e in bocca, poi mi mancò l'animo" L'uomo, ferito, scampò per miracolo - Il figlio l'aveva attirato in un agguato con la complicità di un amico Ora riversa la colpa su quest'ultimo: "Fu lui a istigarmi, diceva che poi sarei stato ricco e libero di avere tutte le donne che volevo" - Il complice nega - Chiesti dal pubblico ministero dodici anni per entrambi « Min padre arriva al volante della sua auto. Si ferma sul ciglio della strada, col motore acceso. Io salgo e gli sledo accanto, ci guardiamo un attimo negli occhi. In silenzio. Poi io alzo la pistola, gli sparo un colpo addosso, nel petto, e un altro In bocca. Vedo che esce tanto sangue, ma lui non è morto, capisco che non è morto, ma non me la sento più di sparare, e fuggo. A poca distanza mi aspetta l'amico Giuseppe D'Oro. Mi dice: " Non l'hai ucciso, torna là, finiscilo. Guarda, l'auto di tuo padre si muove. Torna ". Io mi avvicino nuovamente alla sua macchina, salgo, metto il freno a mano, ma non sparo. Col D'Oro, poco dopo, ci rechiamo in pizzeria, lui mi invita a lavarmi bene le mani col sapone, per cancellare ogni traccia dello sparo, e mi sussurra: " Stai allegro, non fare quella faccia ". Ordiniamo due pizze, ma io ho la nausea, non riesco a buttar giù neppure un boccone; Il D'Oro le mangic tutte e due lui». Giuseppe Emanuele, 20 anni, di Avigliana, comparso ieri mattina in Corte d'Assise (pres. Luzzatti, giudice Cannata, cane. Ferlito) racconta così, con voce piana, gelidamente come ha tentato di uccidere il padre per impadronirsi dell'eredità Accanto a lui siede, coimputato l'amico Giuseppe D'Oro, 25 anni, pure di Avigliana. La vittima, Vittorio Emanuele, piccolo artigiano immigrato da Roccanova (Potenza), scampò alla morte « per miracolo » come dissero i medici. Un proiettile gli forò l'emitorace destro, un altro gli si conficcò nel collo entrando dalla bocca, ma lui quasi non perse i sensi, riconobbe il figlio e il complice, si accasciò un attimo sul volante, si riprese, parti, raggiunse un bar e chiese aiuto. Dopo 22 giorni lasciò l'ospedale, guarito. Il movente dello spietato gesto è rimasto nell'ombra. Il figlio avrebbe tentato di uccidere il padre perché, essendo l'unico erede, sarebbe diventato il capofamiglia, avrebbe potuto disporre di soldi, sarebbe stato libero di frequentare le donne che gli piacevano, non avrebbe avuto più in casa un padre severo, che lo incitava prima a studiare e poi a lavorare. Questo groviglio confuso di supposizioni emerge dagli atti istruttori. Ma Giuseppe Emanuele, un volto impenetrabile, una maschera di apparente insensibilità, su questo punto è stato assai evasivo, cercando di scaricare parte delle responsabilità sull'amico D'Oro: «E' stato lui a spingermi a fare quel che ho fatto. Io ho agito meccanicamente ». Con i due giovani detenuti, sono imputati a piede libero Alfredo Evangelisti, 43 anni e Umberto Giampino, di 42, che avrebbero procurato la pistola a tamburo per il fallito parricidio. La posizione dell'Evangelisti, ammalato, è stata stralciata dall'attuale processo. APa difesa, gli avvocati Cabri e Gianaria per l'Emanuele, Auberti e Forno per il D'Oro, Albanese per il Giampino. Prima del delitto, avvenuto la sera del 30 gennaio '74, ai bivio della strada di Avigliana con quella per la Sacra di San Michele, i due amici avevano fatto un altro tentativo, una specie di prova generale, il 20 gennaio. Il D'Oro telefonò a casa di Vittorio Emanuele, gli disse che il figlio si trovava in una locanda di Sant'Ambrogio con una ragazza. Il padre si precipitò in auto, perché aveva già dei sospetti su una relazione di Giuseppe con una donna sposata. I due, in agguato dietro la locanda, lo aspettavano. D'Oro impugnava la pistola. Ma in quel momento uscì una coppia dal ristorante, e tutto andò a monte. Questo, almeno, è il racconto di Giuseppe, che ha aggiunto: «D'Oro mi faceva strani discorsi: "Sei l'unico maschio, se tuo padre muore, tu diventi il capofamiglia, sarai ricco". Non mi lasciava in pace, mi intimoriva. Io accettai perché avevo paura di i lui. Dopo il primo tentativo an- I dato a vuoto, decidemmo di ten- i dere l'agguato a mio padre la \ sera del 30 gennaio. Ma doveva essere D'Oro a sparare. Io telefonai, dissi a mia madre, con- | traffacendo la voce, che "Pino", cioè io. aveva avuto un incidente al bivio per la Sacra di San Michele. Poco prima che arrivasse mio padre, D'Oro, cambiò idea. Mi diede la pistola, uno straccio per lasciarmi la mano affinché l'arma non lasciasse tracce, e mi ordini) di sparare ». Pres.: « E perché voi avete ubbidito? ». Imp.: « Altrimenti mi sparava. Ero suo succubo, avevo paura di lui ». Pres.: « Ma è assurdo! Quando vi siete alzato il bavero del giaccone per non farvi riconoscere. e vi siete seduto accanto a vostro padre per ucciderlo, avete avuto tutto il tempo di riflettere su ciò che stavate facendo ». Giuseppe Emanuele, impassìbile, ha fatto cenno di no col capo. I Il D'Oro dà una versione dei j fatti diversa. Ha detto: « Ho co- ! nosciuto l'Emanuele in fabbrica: i un giorno mi disse che dovevo i dargli una mano per fare un lavoro. Poi mi spiegò: uccidere suo I padre. Mi rifiutai, lui insistette: I "Procurami almeno una pistola".] E mi diede 50 mila lire. Io la ì acquistai a Porta Palazzo: crede- '• co da, in realtà, l'Emanuele uo- ! lesse un'arma perché andava con una donna sposata e temeva che il marito lo sorprendesse. Comunque, la sera del 30 gennaio, Giuseppe mi chiese di accompagnarlo in macchina (lui non aveva la patente) fino al bivio per la Sacra di San Michele. Lo vidi scendere, nel pressi del night Hermitage, fasciarsi la mano, impugnare la pistola. Pensai: faccende sue. Non vidi altro, non udii altro. Anche perché dal locale notturno si diffondeva una forte musica. Non è vero che mi misi in contatto con l'Evangelisti e col Giampino; non è vero che dissi all'Emanuele: "Non l'hai ucciso, torna, finiscilo". Non ne sapevo nulla ». Il padre, Vittorio Emanuele, ha tentato di dare una mano al figlio che voleva ammazzarlo. Il suo racconto è drammatico: « Arrivai nei pressi dell'Hermitage, piovigginava. Notai mio figlio avvolto nel giaccone col bavero alzato. Sali, mormorò una parola, mi parve un numero, io risposi qualcosa, e lui mi sparò, prima al petto e poi In bocca, che mi era rimasta aperta. Per questo Il proiettile non mi buttò giù nessun dente, neppure uno. Persi i sensi, vidi le montagne, caddi in avanti, poi mi ripresi. Ho sentito D'Oro, che avevo riconosciuto poco più in là domandare a mio figlio, per sei volte: "Pino, lutto bene? L'hai ucciso?". E Pino che rispondeva: "Perde sangue dalla bocca" ». « Vede, signor presidente. Pino è un bambino, che crede a tutto quello che gli si dice. D'Oro lo ricattava, gli metteva paura, lo dominava. A scuola. Pino, è sempre stato un testone. Per me non è a posto ». L'uomo è stato risarcito del danno morale e materiale, con 4 milioni, pagati dallo zio del figlio, cioè il fratello della madre. Il dott. Luzzatti ha detto con tono amaro: « Ma non facciamo ridere. I soldi non sono dello zio. sono del padre, e poi riciclati ». Hanno deposto infine la madre, Lucia Labriola, e la figlia Anna. Secondo i periti psichiatrici (Gamma, Fornari, Gaggiani), Giuseppe Emanuele è sano dì mente, anche se è un soggetto influenzabile e di intelligenza inferiore alla media. Il pubblico ministero dott. Domenico Savio ha proposto la condanna dell'Emanuele e del D'Oro — ritenuti egualmente responsabili — a 12 anni di reclusione, più 6 mesi di arresto per l'arma. Un anno per il Giampino, accusato di porto e detenzione abusiva di pistola. Oggi, dopo le ultime arringhe dei difensori, la corte pronuncerà la sentenza, j Sergio Ronchetti Giuseppe Emanuele ha scaricato la colpa su Giuseppe D'Oro - Durante l'udienza: Vittorio Emanuele, la moglie Lucia e la figlia Anna

Luoghi citati: Avigliana, Potenza, Roccanova