BREVE CRONACA DELLA CAMPAGNA D'AFRICA di Giuseppe Mayda

BREVE CRONACA DELLA CAMPAGNA D'AFRICA BREVE CRONACA DELLA CAMPAGNA D'AFRICA La marcia su Addis Abeba Nell'alba chiara del 3 otto-bre 1935 le truppe italiane penetravano in Abissinia, su un fronte di 60 km, varcando il Mareb, un fiumicello che scorre fra basse colline brulle e che segnava la frontiera. Ma già a mezzodì del giorno precedente, e sette ore prima che Mussolini dichiarasse guerra annunciando che «con l'Etiopia abbiamo pazientato quarant'anni, ora basta », nostri reparti avevano violato il confine a Sud del monte Moussa Ali, nella provincia Aoussa («Journal Offìciel » della Società delle Nazioni, nr. 11; telegramma da Addis Abeba, 2 ottobre 1935). Hailé Selassié, avvertito per telegrafo, ordinava a ras Sejum, capo dell'armata del Tigrai, di « ritirarsi ad una giornata di marcia dalle frontiere prima ancora che il grosso degli italiani le abbia varcate ». L'imperatore voleva che si sapesse nel mondo, una volta per tutte, chi era l'invasore; ma Mussolini non ne aveva fatto mistero: «Qualora il Negus non abbia in- ] tenzione di attaccarci — avej va scritto al maresciallo De ' Bono nel febbraio — dobbia- mo noi stessi prendere l'iniziativa » e, in quel periodo, il conte Sforza attribuiva al duce questa frase: « No, anche se l'Etiopia mi fosse portata su un piatto d'argento io la voglio con la guerra ». 11 consenso di Pio XI Cosi, quarant'anni fa, quando ormai l'èra del colonialismo stava tramontando e senza che le risorse etiopiche potessero realmente servire a risolvere i nostri problemi economici, il fascismo iniziava la conquista dell'Abissinia. Tuttavia il conflitto, che ci doveva costare 2400 morti e 12 miliardi di lire, pari a 1600 miliardi odierni, ebbe presa e consenso in larghi strati della popolazione. Nel 1935 l'Italia risentiva ancora della crisi economica mondiale; di fronte a un calo medio del 25 per cento del costo della vita, i salari industriali erano stati ridotti dal 40 al 50 per cento e quelli agricoli dal 1 50 al 60 per cento; secondo le cifre ufficiali, inferiori alla realtà, nel 1934 i disoccupati ammontavano a un milione. La conquista di un nuovo territorio poteva quindi apparire, ad un popolo industrioso ma povero, una promettente avventura con possibilità di ricchezze e benessere e con risvolti di pacifica colonizzazione (diceva una canzone dell'epoca: « E se l'Africa si piglia / si fa tutta una famiglia »). Del resto, dopo tanti morti inutili per Tripoli, per la Migiurtinia e per l'oasi di Cufra, l'Italia aveva adesso il miraggio (che tale poi rimase) delle fertili pianure, delle grandi foreste, dell'oro e del platino dell'Abissinia. Consensi autorevoli all'impresa militare non mancarono; persino alcuni antifascisti in esilio furono sedotti dall'idea di una Italia promossa al rango di « grande Potenza » e Pio XI, parlando il 27 agosto 1935 a duemila infermiere, dopo aver detto che « il solo pensiero della guerra Ci fa fremere », spiegò che « una guerra di difesa, per assicurare le frontiere, (...) divenuta necessaria per l'espansione di una popolazione che aumenta di giorno in giorno, (...) intrapresa per difendere o assicurare la sicurezza materiale ad un Paese, una tale guerra si giustificherebbe da sola». Anche le grandi democrazie europee, in sostanza, non furono da meno. Malgrado l'Etiopia fosse Stato membro della Società delle Nazioni, Gran Bretagna e Francia — evidentemente sazie o, secondo l'espressione di Vansittart, « colme di territori » — non opposero che un debole contrasto al tentativo fascista di recuperare (come scrive William P. Deakin) « l'occasione perduta durante il processo storico dell'espansione colonialista »: le sanzioni economiche, decretate il 18 novembre 1935 contro l'Italia come punizione dello « Stato aggressore », non vennero applicate a fondo e il 4 luglio 1936 furono revocate. La campagna d'Etiopia, du- mila soldati, di cui solo un !quarto avevano ricevuto un |rata sette mesi e due giorni, fu decisa a favore dell'Italia dalla grande disparità di forze in campo e dai metodi spietati di guerra. Il fronte eritreo (De Bono) e quello somalo (Graziani) avevano 15 divisioni per un complesso di 400.000 uomini, 700 pezzi di artiglieria, 6000 mitragliatrici, 150 carri armati, 164 aerei, migliaia di automezzi. Con i gas asfissianti L'Etiopia disponeva di 350 addestramento militare, 400 mila fucili « di ogni tipo e di ogni età », 2000 mitragliatrici, 250 vecchi cannoni, 14 aerei ! dei quali solo otto in grado di volare e 15 fra autoblindo e carri armati. Tuttavia, dopo una fase iniziale di vittorie (Adua, 6 ottobre; Axum, 15 ottobre; Macallé, 8 novembre) la resistenza abissina si irrigidì, specie al Nord, e i ras Cassa, Sejum, Immirù e Mulughietà prepararono una controffensiva che, nell'inverno, costrinse gli italiani a ripiegare dal Tacazzé fin sotto Axum e dall'Amba Tzelleré fino al passo Uarieu. Fu allora che Graziani e Badoglio, il quale aveva sostituito De Bono, ricorsero ai gas asfissianti. « Dati sistemi nemico — telegrafò Mussolini a Badoglio il 26 dicembre — autorizzo V.E. all'impiego, anche su vasta scala, di qualunque gas e dei lanciafiamme ». E il 12 gennaio 1936, dal comando di Graziani impegnato contro ras Desta, ras Maconnen e il « deggiac » Nasibù Zemanuel nella battaglia del Ganale Doria, il generale Bernasconi riferiva: « Alle 6 est iniziata partenza aerei bombardamento. Partecipano 24 apparecchi dei quali sei caricati gas. Lanciato chilogrammi 1700 gas e 7000 bombe calibro vario. Gas lanciato guado Bandu e riva destra Ganale Doria sino Uadi Baccasu ». Sotto l'incalzare di questo massiccio congegno bellico, il fronte abissino venne spezzato poco dopo l'inizio dell'anno. L'armata di ras Cassa fu decimata coi bombardamenti aerei e coi gas già nella prima battaglia del Tembien; eguale sorte toccò, nel Sud, all'esercito di ras Desta, inseguito da Graziani fino a Neghelli e distrutto fra carneficine anche di civili. Badoglio usò l'iprite e i gas vescicanti nelle battaglie dell'Amba Aradam, dell'Amba Uorc e dello Sciré dove ogni combattimento si concluse con un rapporto di perdite da uno a dieci fra attaccanti e difensori. L'aviazione colpì ! indiscriminatamente truppe, | villaggi ed autoambulanze uc- ! cidendo, con i soldati, anche donne e bimbi: alla fine del conflitto l'Etiopia lamentò 275.000 persone morte per eventi bellici e altre 300.000 decedute in seguito alle privazioni per « aver avuto i loro villaggi distrutti ». Bloccata dalle piogge l'avanzata di Graziani su Harrar, i resti delle armate etiopiche — nella primavera 1936 — si riunirono attorno all'imperatore sul passo di Mai Ceu per l'ultima difesa. Erano 31.000 uomini e, nello scontro, Selassié partecipò in prima linea sparando con la mitragliatrice contro gli aerei. La disfatta abissina, conclusa con la battaglia del lago Ascianghi, aprì la strada per Addis Abeba ma la conquista della capitale, il 5 maggio 1936, non rappresentò la fine della guerra. Da quel momento, infatti, incominciò in tutta l'Abissinia una sorda e cruenta lotta armata contro l'invasore (173 morti italiani nell'ottobre ! 1936, 156 morti in novembre, 134 morti a dicembre) che non ebbe mai soste finché, con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, il Paese non venne occupato dagli inglesi. Si avverò così la profezia di Carlo Rosselli e cioè che il «colonialismo straccione» di Mussolini sarebbe stato destinato a crollare, « dopo anni e anni di guerriglia », svelando l'enorme inutilità di una guerra « odiosa e stupida » come quella proclamata il 2 ottobre 1935. Giuseppe Mayda