I padroni multinazionali di Ennio Caretto

I padroni multinazionali LA CAUTA RIPRESA ECONOMICA DELL'AMERICA I padroni multinazionali Il progresso della tecnologia occidentale in parte si deve alle "corporations" - Ma il potere di questi giganti finanziari, capaci di condizionare consumatori, comunità, governi, preoccupa Washington e i suoi economisti, che ne chiedono la riforma (Dal nostro inviato speciale) Washington, settembre. « Secondo il ministero del Lavoro, tra il 1973 e oggi i salari in America sono diminuiti dell'8,7 per cento in termini reali, mi dice Richard Barnet. Ecco dunque sfatato il mito che l'inflazione sia sempre causata dalla spinta salariale. Un altro appunto. Attualmente, moderando la ripresa della nostra economia, appena uscita dalla recessione più grave degli ultimi 40 anni, la Casa Bianca opta per una percentuale del 7 per cento di disoccupati. Essa dichiara che, quando la situazione sarà stabile, concederà esenzioni fiscali all'industria affinché ritorni alla piena produzione e al pieno impiego ». Richard Barnet si /erma, mi guarda e esclama: « E' un sogno. E sa perché? Perché ciò presuppone che il mercato funzioni. Ma il mercato è morto, lo hanno ucciso da alcuni anni. Le crisi economiche non si superano più coi soli strumenti keynesiani. Occorrono riforme radicali: del fisco, del sindacato, dell'impresa. Occorrono il patto sociale, la programmazione e cento altre cose ». Si alza, prende un libro in mano: « Galbraith è l'unico che c'è andato vicino. Queste sono crisi di struttura. Non creda agli economisti che difendono il sistema: certo, con la stagflation, con lo stop-and-go, tra recessione e inflazione, si può procedere ancora parecchio. Ma sarebbe il suicidio del capitalismo ». Richard Barnet è il direttore dell'Istituto di studi politici, un thinktank di intellettuali intorno al quale sono scoppiate le polemiche più interessanti e costrutti¬ ve dell'ultimo triennio a Washington. Sui 40 anni, con una gran massa di capelli, in continuo movimento, è assertore di un new deal che investa lo Stato nella sua interezza. Siamo nel suo ufficio, al quarto piano dell'istituto, e stiamo discutendo della crisi economica che travaglia l'Occidente. Insieme con l'economista Ronald Muller, Barnet ha scritto un libro sulle « multinazionali », Global reach, che da sei mesi figura tra i best-sellers. « La multinazionale, mi dice, è la principale responsabile della morte del mercato ». « Keynes, prosegue, s'ispirava ai principi della libera concorrenza, dell'efficienza, dell'eguaglianza, della democrazia; pensava e operava nel contesto delle economie nazionali. Ma il nostro mondo è molto diverso dal suo. E' il mondo degli oligopoli, degli sperperi, delle gerarchie; delle corporations senza frontiere e in conflitto con gli Stati. A mio parere, le teorie di Keynes hanno perso buona parte della loro validità. Ripeto, servono di più quelle di Galbraith sulla società post-industriale. Forse, voi in Europa non avvertite così drammaticamente il cambiamento. Ma noi sì. Due terzi delle "multinazionali" sono nostre ». Fuori degli Usa Richard Barnet s'accende una sigaretta, riflette un attimo in silenzio. « Che cosa caratterizza le corporations?. chiede. La loro universalità, non solo geografica, ma anche d'interessi; la loro mobilità; la loro centralizzazione. A differenza degli Stati, pianificano su scala mondiale: integrano le risorse e i prodotti di vari continenti, sfruttano i mercati finanziari internazionali, controllano le maggiori reti distributive. Hanno un potere politico senza pari, perché, dovunque, condizionano i consumatori, le comunità e i governi ». S'interrompe, sorride: « Non alludo ai recenti scandali, le "bustarelle", le sovvenzioni ai partiti e così via. E' un problema di fondo ». Mi elenca una serie di dati impressionanti. Oggi, nel mondo, esistono circa 2000 « multinazionali », tra cui è in atto un processo di fusione che potrebbe ridurne il numero a 300 entro un ventennio. Il loro tasso di sviluppo è il doppio di quello dei Paesi più industrializzati. Il fatturato di giganti come la Exxon, la Shell, la General Motors eccetera supera ormai il prodotto nazionale lordo di almeno 110 Stati. In America, i due terzi di tutto il giro d'affari appartiene alle prime 500 corporations; e le 50 banche principali hanno oltre la metà delle azioni degli altri istituti finanziari e di 5200 compagnie. Esse sfuggono al controllo di Washington, per un vuoto della legge. « Queste cose sono note, afferma Barnet, troncando la sua esposizione. Ma le altre? Chi sa, ad esempio, che più della metà delle transazioni di qualsiasi "multinazionale" americana avviene al suo interno, cioè tra le sue branche? O che la stragrande maggioranza delle diverse parti del nostro mercato è dominata da non più di 4 corporations, che formano l'equivalente di un "cervello"? O che, nella loro strategia di diversificazione, questi giganti usano i profitti di un settore per sovvenzionare la conquista di un altro? ». Mi punta contro un dito: « Mi spieghi lei come si può ancora parlare di libera concorrenza ». Le « multinazionali », prosegue Barnet, non rispettano neppure gli altri dettami keynesiani. « Esse mirano esclusivamente al massimo profitto. Ci sono le eccezioni. Ma più che soddisfare la domanda, la falsano o la creano, a seconda della propria convenienza; non si preoccupano del pieno impiego, bensì prendono la manodopera dove lo trovano più vantaggioso; snatui rano i prezzi, o per motivi ì a a a , i o a » n » e . e i o r à o : e a ! di sviluppo o a fini fiscali ». j Tace un momento per ri| spondere al telefono: « Data I la loro forza economica, rij prende, è inevitabile che l'orI dine tradizionale ne sia i sconvolto, e gli Stati divenJ tino semiimpotenti nelle crisi. In fase di boom lo si avverte poco, ma è ormai un male endemico ». Mi fa un secondo elenco: di comportamenti delle corporations che hanno aggravato le difficoltà dei governi: « Alcune di esse hanno speculato sulle tempeste monetarie del 1973: e badi che gestiscono complessivamente 300 miliardi di dollari, più della metà delle riserve mondiali. Altre hanno cercato rifugio nei cosiddetti paradisi fiscali: nel 1958, le "multinazionali" pagavano il 25 per cento di tutte le tasse americane, l'anno scorso ne hanno pagate meno del 15 per cento. Altre ancora hanno sistematicamente alzato i prezzi delle importazioni e abbassato quelli delle esportazioni, per rimuovere parte del loro reddito dagli Usa. Per queste ragioni le statistiche sui pagamenti sono dubbie ». Nuovi sindacati Barnet attribuisce alle corporations anche l'indebolimento dei sindacati: « Essi erano già avviati sulla strada della burocratizzazione, dice scuotendo il capo, e passandosi una mano nei capelli. Ma il ricatto delle "multinazionali" li ha ulteriormente staccati dalla base. Solo lo scorso maggio, dopo che nei sondaggi d'opinione il 60 per cento degli americani s'è dichiarato insoddisfatto dell'industria e dei managers, i sindacati si sono mossi. Oggi chiedono al Congresso un'inchiesta sui rapporti che esistono tra gli istituti finanziari e questi giganti, e sul loro peso sulla distribuzione della ricchezza ». Il discorso si sposta sulla struttura gerarchica delle corporations t« un'anomalia, dato che essa viene oggi denunciata nelle forze armate, nella Chiesa, persino nella famiglia») e sulla loro funzione sociale (« che è minima, perché tutto viene misurato in termini di crescita quantitativa »). Infine si sofferma sitila Casa Bianca, su Nixon e su Ford. « E' difficile credere che essi non fossero o siano lega'i al grande business », conclude Barnet: « Si sono verificati episodi intollerabili, come quello della Exxon, che durante l'embargo petrolifero ha rifiutato il petrolio alla flotta Usa, senza un'adeguata reazione da parte del governo. E nessuno, in Pennsylvania Avenue, parla di riforme ». Richard Barnet mi chiede scusa, ha un impegno ed è in ritardo. S'accomiata con un idtimo commento: « Da qualche anno, i vari Galbraith e Nader, il difensore dei consumatori, reclamano un processo alle corporations. Di ragioni ce ne sono state tante: l'Itt in Cile, le "sette sorelle" in Medio Oriente, la Lockheed ■— che tra l'altro fu salvata da un prestito governativo —■ in Europa. C'è stata soprattutto la minaccia portata alla sovranità degli Stati, in un conflitto che ricorda quello medioevale tra le nazioni e la Chiesa. Ma io vedo anche nelle "multinazionali" una delle cause delle recenti crisi econoni'che, e soprattutto dell'impossibilità di porvi rimedio senza una rivoluzione ». // «j'accuse» dell'autore di Global reach è unilaterale e forse non obiettivo. Noti c'è dubbio infatti che alle corporations va una parte del merito del rapido progresso economico dell'Occidente nel dopoguerra, della diffusione del know-how, del management e delle alte tecnologie, dell'aumento della produttività. E' stato calcolato che in America esse si sono sviluppate a un ritmo tre volte superiore a quello delle compagnie nazionali, creando 600 mila nuovi posti di lavoro in un ventennio. Hanno inoltre contribuito ali«apertura» al mondo comunista, dove la fame di beni di consumo è eguale solo alla fame di capitali. E tuttavia, l'esigenza di una serie di riforme sociali ed economiche nei Paesi occidentali, e, parallelamente, di una regolamentazione delle corporations. è ormai inderogabile. In un discorso letto dall'ambasciatore Moynihan alle Nazioni Unite, ma preparato da Kissinger, gli Usa hanno proposto una « carta » delle « multinazionali », nel rispetto del principio dell'interdipendenza economica. Sarà sufficiente? C'è da pensare di no, se è vero che il mutato ordine delle economie « miste » impone una revisione delle dottrine e degli istituti. E' da questo presupposto che partono gli spiriti più innovatori dell'America. Ennio Caretto