I grandi fotografi morti in Vietnam di Guido Ceronetti

I grandi fotografi morti in Vietnam I grandi fotografi morti in Vietnam La rivista di Parigi Photo, diretta da Frank Ténot, ha voluto, col suo numero di luglio, rendere omaggio ai giornalisti e ai fotografi morti o scomparsi tra il 1947 e il 1975 nelle guerre d'Indocina. I morti accertati sono trentanovc; tra questi, Kyochi Sawada, Henri Huet, Larry Burrows, Robert Capa. Capa mori nel 1954, alla fine della guerra del Tonkino. Il suo Miliziano della guerra civile spagnola, fermato nell'attimo della morte, in piedi, il fucile ancora impugnato, ha fatto il giro del mondo come l'immagine stessa della Spagna repubblicana e della sua fine, ed è un pezzo di tragico moderno di grande forza. I fotografi di guerra sono gli Eschili del caso. Il fato li adopera come occhi del coro, a volte sacrificandoli come becchi espiatori, carichi di rulli dov'è impressa la colpa e la morte. Insieme a una banale funzione di professionisti della testimonianza, ne hanno una catartica, assorbono nei loro apparecchi (che sono le loro stesse persone, il loro occhio) violenza consumata, la filtrano, la riducono, iniettandola nelle vene del pubblico come un vaccino impotente. Lo stesso proiettile che aveva colpito a morte il Miliziano, raggiunse Robert Capa in una risaia del Tonkino. C'è una sua foto di quei giorni: un bambino morto in primo piano e alcuni soldati di spalle, eterogenei, diretti a un'azione. Minore forza tragica che nel Miliziano, perché lì la morte non è vivente, tra il piccolo morto e i vivi c'è l'invisibile salto. Un esempio di morte vivente è invece l'esecuzione alla pistola di un vietcong da parte del capo della polizia sudvietnamita Loan, nel febbraio 1968, fotografata a bruciapelo da un inviato di agenzia, Eddie Adams dell'AP. Il colpo è esploso da pochi centimetri, alla tempia destra, l'uomo è in piedi e fa una smorfia che sembra di pianto. Fermato nell'atto del suo consumarsi, l'omicidio non cessa più, la detonazione seguita a dilatarsi: un colpo un colpo un colpo... Eisenstein ha parlato della speciale sonorità delle immagini in un film muto. Questa è un'immagine sonora, di una sonorità accecante, non raggiungibile da nessuna finzione. Ha colpito, colpisce, in quanto esercita un'azione fisica. Altra morte vivente (più catartica, ma più molle e lontanai: il monaco-torcia, suicida col fuoco a Saigon, il primo, nel 1963. Il monaco è in posizione di meditante seduto, la schiena diritta, immobile nella fiamma che lo crema. Un gruppo di confratelli a poca distanza lo contempla senza dolore. Si vede, rovesciata, la tanica di benzina che è servita per l'operazione, un'automobile ferma, un'insegna: Tan-lan. La testa corrosa dal fuoco sembra incisa su una moneta archeologica, e lo spirito vitale abita ancora in quel reperto opaco. La foto è di Eddie Adam.;; premio Pulitzer 1964. L'agonia di Dien-Bien-Phu, fortino dopo fortino, la registrava la Rolleiflex di Daniel Camus, volontario in Indocina nel 1949, ferito e rimasto nel corpo di spedizione come fotografo, in un servizio che De Lattre de Tassigny voleva monopolio militare, ma con scopi di diffusione mondiale della documentazione. C'erano, con lui, altri due fotografi nel campo trincerato. Come i soldati fracassano le armi al momento della resa di De Castries, cosi i fotografi i loro apparecchi. I film di Camus, Schoendorffer e Péraud, scoperti e confiscati, sono negli archivi nordvietnamiti, preda di guerra, segreti. Gli ultimi giorni di Dien-BienPhu fluttuano per noi, come un fatto d'arme del passato, nella sola parola. Alcune immagini sono tratte da Vietnam Inc. di Philip Jones Griffiths (Colliers, New York 1971) che lavorò in Vietnam tra il 1966 e il 1971, per l'agenzia Magnum e per se stesso, in bianco e nero e a colori. Nel 1966, coll'inizio della escalation, i giornalisti cominciano ad arrivare a migliaia. Aerei, elicotteri americani, anche della Croce Rossa e della Cia, li portano dappertutto, nei villaggi, sulla linea del fuoco, a coprire giornalmente l'evento (che non significa nasconderlo, ma documentarlo, renderlo noto, assicurarlo alla durata). La sanguinosa caccia alle immagini trovava riposo in tre attività, racconta Griffiths: mangiare, f..., fumare (droga), le stesse dei soldati nelle città di retrovia. A Saigon ragazze e oppio erano a buon prezzo, la cucina dei grandi alberghi rinomata. Nella stanza-fumeria dove il cacciatore d'immagini si rintana, c'è il suo carniere silenzioso, gonfio di violenza congelata, di mattatoio seccato, che andrà a svuotarsi sui mari di carta. (La carta è stanca). Una foto di Griffiths potrebbe, come il Miliziano di Capa, essere fatta segno di questa guerra, ma il suo tragico è molto diverso, è qualcosa che somiglia all'arte non eloquente secondo Berenson, e invece di una morte vivente, che è ancora piena di forza (come il colpo a bruciapelo di Loan), c'è una vita morta; è l'immagine più silenziosa che si possa vedere, non emana la più leggera sonorità, non parla e non ricetta parole. Potrebbe essere anche il simbolo di questa fine di secolo, della sua demenza e del suo destino. Si tratta di una figura umana di cui il becchino di Amleto direbbe One thal was a ivoman, Sir, con la testa così rigorosamente fasciata da somigliare a uno slavato pallone da rugby. La potenza dell'immagine è dovuta alla mano che con le dita allargate, ustionate dagli anni, copre la faccia bruciata, nascondendo i buchi del respiro lasciati dalla medicazione. Da una fessurina sulla nuca esce un po' di capelli. La mano copre una faccia che non si vede, non per la vergogna di quel che le bende nascondono, ma di tutto quel che è uomo. L'altra mano, stretta all'ascella, nell'ombra, sostiene questo braccio, albero nudo, che sembra unico. Pende dal polso della murata un cartellino, che dice le caratteristiche del contenuto; si legge, in maiuscole, che è femmina (Vernale). Napalm. Napalm, il fuoco liquido antropofago, è uno degli dei di questa guerra. La foto premio Pulitzer 1973, scattata da un vietnamita per l'Associateci Press, di un gruppo di bambini che scappano urlando di terrore da un villaggio bombardato, racconta una delle sue imprese. I bambini sono illesi, ma hanno visto il dio faccia a faccia; il centro dell'immagine è una bambina nuda, stigmatizzata invisibilmente dalla visione, che con le braccia aperte sembra sforzarsi di volare. Il fondo, un fuoco in movimento, è un blocco demoniaco vagante, s'indovinano le forme confuse dei mostri. Le immagini veramente significative, che sfuggendo ai limiti della copertura del fatto, tracciano sul muro un segno da decifrare, presagi enigmatici, pensose totalità umane, sono molto rare, forse non più ' di tre o quattro in tutto il fa- scicolo. Ne aggiungerei un'al- tra a quelle che ho descritto, di Griffiths, dove non c'è orro-l ra, ma soltanto gravità e bellezza. Qui una donna matura, vietnamita, seduta su una pietra, regge tra le ginocchia magre e le grosse mani un bambino addormentato in una calma morte; il suo volto leggermente inclinato esprime e diffonde una decenza infinita, di Pietà nordica antica. A un passo da lei, un piede sulla stessa pietra, gomito sul ginocchio, mento sulla mano, un soldato americano con gli occhiali, coperto d'armi, la guarda. C'è come uno strano effetto ottico, di quelli noti nella pittura: dietro le lenti, gli occhi del soldato sembrano abbassati e nello stesso tempo fissi, con stupore e ritegno, sulla donna e il bambino morto. È una pausa di riflessione di fronte alla fatalità c al dolore. L'americano è un monaco meditante, coperto da un elmo invece che raso, assurdo arsenale inutile, sulla verità buddista del Dolore. Ecco, questa immagine fa riaffluire il sangue alle radici asfissiate della dignità umana. Diceva Epitteto a Epafrodito che gli torturava una gamba: — Finirai per romperla. — E quando fu rotta: — Te lo dicevo che l'avresti rotta. — Gamba di filosofo o Vietnam, una verità delle più trascurate, forse per paura della sua evidenza, è che la carne è fragile. Anche questo numero di Photo 10 grida: la carne è fragile. La carne è fragile; un po' d'acqua e di sale che ripetono cose immutabili, qualche miliardo di cellule che l'ustione dalla superficie incalza e liquefa nelle profondità. E contro questa fragilità una tecnologia tranquillamente sfrenata, intelligenza e denaro in quantità non misurabili, puntano armi da far fondere una solida costellazione, da sfigurare un sistema solare. Questi fisici, chimici, tecnici sublimi non sanno, è chiaro, che per fare sanguinare una narice, per rompere due denti, un pugno basta. Perché questa pazzia di mettere in opera le più complicate forme di distruzione, per una medusa che si squaglia, per un cuore che si ferma al brillare di un coltellino? Perché sprecare mille bombe al fosforo per una piccola pancia di bambino, per qualche ruga di vecchio, per un paio d'occhiali? Non prova l'intimo bisogno di spenzolare da un soffitto, accanto a una sedia rovesciata, l'uomo di scienza, da premi e da congressi, che mette 11 suo entusiasmo in queste generose invenzioni, nel vedere i loro effetti su un grumo ' di carne? La carne è fragile, nata a patire. Alla vista delle tue boc che dai formidabili uncini, sil nuli al fuoco cosmico che di¬ strugge tutte le cose, non so più dove cercare rifugio. Grazia, o Signore degli Dei che penetri tutti i mondi (Bhagavad-Gita, XI, 25). Guido Ceronetti

Luoghi citati: Indocina, New York, Parigi, Saigon, Spagna, Vietnam