Per un capitalismo umano di Ennio Caretto

Per un capitalismo umano LA CAUTA RIPRESA ECONOMICA DELL'AMEBICA Per un capitalismo umano A cavallo tra Watergate e Vietnam, molte certezze si sono corrose, certi valori non sono più al di sopra di ogni sospetto Ora i più avveduti, parlando del futuro, pensano alle riforme anziché ai boom - L'alto prezzo umano dell'ultima recessione (Dal nostro inviato speciale) Washington, settembre. All'indomani della più grave crisi economica dal 1929. quali obiettivi si prefigge l'America? « Sostanzialmente due », mi risponde l'ex-consigliere del presidente Johnson, Arthur Okun. « Conciliare il pieno impiego con la stabilità dei prezzi e promuovere l'eguaglianza insieme all'efficienza ». Mi trovo alla i< Brokings Institution », il più celebre think-tank di economisti del Paese, nel centro della capitale. Okun parla della recessione, oggi in via di superamento. « E' destinata a lasciare tracce I profonde sia sulla scienza dell'economia », dice, « sia sulle strutture della società americana ». Non è il primo né l'ultimo a /are ora queste affermazioni. A cavallo tra Watergate e il Vietnam, la crisi ha corroso molte certezze dell'America. Né l'opulenza, né il mercato, né l'inesauribilità delle risorse, né il tessuto della democrazia so?io più al di sopra dei sospetti. C'è slata una parziale, confusa presa di coscienza dei limiti e delle ingiustizie del sistema. Né il disinteresse della Casa Bianca né l'apparente rassegnazione popolare pos- i sono celare l'emergere di ! problemi e di valori nuovi. I Si discute del futuro non più ' con sufficienza ma con rea! lismo, e anziché ai booms si pensa alle riforme. Lo stoI gan non è lontana opportunità per tutti, ma costante sicurezza. « Alla fine del '72, inizio I del '73», dichiara Okun, « il j sogno americano sembrava | ormai realizzato. La produzione e i salari crescevano del 7 per cento annuo, a Wall Street l'indice Dow Jones varcava le colonne d'Ercole, toccando i 1100 punti, la disoccupazione scendeva verso il 5 per cento e l'infia¬ li, msembra I ! I ! i ' | zione verso il 3. Si stava per firmare la pace nel Vietnam, 10 scandalo Watergate era ancora risolvibile. vece, questo sogno infranto. La ripresa economica è lenta e faticosa, e si esclude il ritorno ai precedenti ritmi d'espansione, mentre s'accentuano le aspettative singole e di classe ». Okun attribuisce la caduta a una straordinaria mescolanza di sfortuna e di errori del governo. « Se voltassimo 11 piatto della recessione », osserva, « ci vedremmo scritto sopra "made in Washington". Il governo ha ignorato il rialzo dei prezzi dei generi alimentari nel '72, ha voluto svalutare una seconda volta il dollaro nel '73; non s'è reso conto degli effetti depressivi del ricatto petrolifero dell'Opec nel '74; e per due anni e mezzo s'è battuto con cecità fanatica contro l'inflazione. Anche adesso, contribuisce poco alla ripresa, come se la recessione fosse un male secondario. L'idea (infondata) della Casa Bianca è che il mercato la sconfiggerà da solo ». « Ma quali sono i fatti? », chiede l'ex consigliere economico del presidente Johnson. « All'altare della stabi- i lità dei prezzi, abbiamo sa- j criticato come dei pagani milioni di posti di lavoro, e 200 e più miliardi di dollari di | produzione annua, con conse- j guente calo dei redditi in termini reali. Si sono esaspe- | rati il divario tra ricchi e poveri, le ineguaglianze, le tensioni. E' chiaro che una ripresa non guidata non potrà soddisfare i problemi e i valori nuovi. Mi meraviglio che il Congresso non si riunisca 24 ore al giorno, e che colonne di dimostranti non marcino sulla capitale ». Non sono osservazioni fatue. La recessione in Ameri- i ca è stata meno grave che In Gran Bretagna, in Italia j o in Giappone, ma nessun | Paese industrializzato ha pagato un prezzo limano così caro. Stando alle statistiche, la percentuale dei disoccupati, pur essendo scesa negli ultimi tre mesi dal 9,2 all'8,4 per cento, è la più alta dell'Occidente. Essi formano un esercito di oltre 8 milioni di persone. Equivalente alle popolazioni della Grecia o del Portogallo. Poi vengono gli altri. I 900 mila che non cercano più impiego, poiché da tempo non lo trovano: i 3 milioni 800 mila che lavorano part-time (anche solo un'ora al mese) mentre vorrebbero un posto fìsso; gli hippies e i vagabondi. Era da 35 anni che code così lunghe non si formavano agli uffici di collocamento. E' vero che il sistema di previdenza, chiamata dal presidente Ford « la nostra I prima linea difensiva», pròtegge 6 degli 8 milioni di di- i soccupati e 2 milioni di famiglie. Ma un quarto dei \ fondi, ha dichiarato il senatore Williams, si esaurirà nei j prossimi dodici mesi. E le \ « sacche » depressive, geografiche e di categoria, s'al- \ largano. Il 21 per cento dei giovani e il 14 per cento dei negri sono senza lavoro; così come lo sono il 16 per cento degli abitanti di Detroit, la città dell'automobile, e il 12 per cento di quelli di Boston. La recessione ha anche acuito le disparità sociali. Negli anni delle vacche grasse, tra il '60 e il '73. il numero degli americani al di sotto della cosiddetta « linea della povertà » era sceso da 40 a 23 milioni (mentre la popolazione era salita da 179 milioni a 211); oggi, supera i 24 milioni e mezzo. La « base » dello Stato, cioè la metà inferiore dei cittadini, possiede appena un ventesimo della ricchezza nazionale; il « vertice », cioè l'uri per cento in cima alla piramide, ne possiede un terzo. Gli Stati Uniti restano il Paese col tenore di vi- j £ migliore del mondo. ma l'espansione economica del dopoguerra non ne ha corretto i principali squilibri. Sino al '73 le disparità sono state tollerate — ha spiegato l'economista Otto Eckstein — « perché ritenute indispensabili al funzionamento del sistema ». Oggi, invece, appare inderogabile la necessità di ridistribuire in qualche modo la ricchezza. Non si può ammettere — ha scritto Okun stesso — « che i cani e i gatti delle famiglie ricche vengano nu- 1 triti meglio dei bambini delle famiglie povere ». Ila asserito il sociologo di Harvard Daniel Bell: « Con la crisi, siamo passati dalle " grandi aspettative " alle grandi rivendicazioni. Al confronto impresa-sindacato, s'è aggiunto quello governo-cittadino ». Conciliare il pieno impiego con la stabilità dei prezzi e promuovere l'eguaglianza insieme all'efficienza non è facile in una cultura come quella americana. Tuttavia, a parere degli economisti che ho incontrato, l'esperienza della recessione non consente alternative. « Rispetto all'Europa », mi ha detto il premio Nobel Samuelson, « la pace sociale di cui abbiamo goduto è una anomalia. Pur di rafforzarla, dobbiamo essere disposti a un controllo elastico del mercato e una crescita economica più lenta ». Samuelson propone un « capitalismo dal volto umano », non un Welfare State, dove la produttività non nuocia alla giustizia, e la lìbera concorrenza non sconfini nell'arbitrio. Il 54 per cento dei disoccupati americani sono operai («colletti blu») e la stragrande maggioranza delle famiglie sotto la « linea della povertà » sono negre (o di altre minoranze). «In un'economia sempre più specializzata », ha commentato Eckstein, « e rivolta per più della metà a un tipo nuovo di servizi, è impossibile trovare una collocazione a tutti loro ». Okun 10 ritiene esatto solo a breve termine. «Un programma adeguato d'istruzione », afferma. « e di smistamento della manodopera, progetti di lavori pubblici, attività comunitarie e così via cambierebbero le prospettive a tempi lunghi ». L'ex consigliere economico del presidente Johnson non si discosta dal modello dell'economia mista, né cambierebbe le odierne istituzioni dello Stato. Egli considera <: la democrazia del mercato » necessaria al mantenimento della « democrazia politica » e respinge l'ipotesi marxista « perché totalitaria e inefficiente ». Tra i suoi suggerimenti, vi sono la riforma fiscale, « anche se osteggiata dalla plutocrazia»; 11 contenimento dei prezzi e dei salari; la concessione di sussidi ai redditi più bassi. « La recessione ». conclude Okun, « ha messo ciascuno di fronte alle proprie responsabilità: situazioni anche lontanamente analoghe a quella del 1929 non sono più accettabili ». Tra le istanze portate dalla crisi e l'atteggiamento delle corporations, dei sindacati e del governo esiste però — con talune eccezioni — un notevole divario. La prospettiva di una rivoluzione economico-sociale turba (/ue/i'establishment che un giorno accolse entusiasticamente la prospettiva della rivoluzione industriale o tecnologica. Integrati nel potere, i leaders di ieri temono le riforme radicali: la loro parola d'ordine è «non scuotere la barca ». Come in passato, essi hanno bisogno, ha scritto Daniel Bell, di una frangia sottoproletaria ». Gli imprenditori come Henry Ford, che auspica la programmazione, anche per l'automobile, i managers come Jones, della General Electric, che attribuisce alla azienda un ruolo socio-politico, i sindacalisti come Woodcock, che non si ferma agli incrementi dei salari, costituiscono una minoranza, sia pur forte. Ancora oggi, la maggioranza dei dirigenti americani guarda a conservatori come Rockefeller, ad amministratori aggressivi come Geenen,. dell'I.T.T., e alla « vacca sacra » delle Unions, l'ultrasettuagenario Meany. un pilastro della guerra fredda anche nei commerci. Paragonata a quella degli economisti, e dei ceti più consapevoli del Paese, la loro azione è di retroguardia. Persino più stridente appare l'immobilismo della Casa Bianca. Mentre il Congresso discute i disegni di legge per il pieno impiego del deputato Reuss e del senatore Humphrey, nei suoi discorsi il presidente Ford promette la fine « dell'ingerenza del governo nelle questioni private dei suoi cittadini », e, confortalo dalle i denunce degli sperperi, at| tacca altresì la previdenza ! sociale. A certuni, egli può ! apparire l'interprete fedele j dell'umore nazionale in una j fase disagiata e transitoria. \ Ma, come dice Okun, il suo stile ricorda quello di Hoover nel '28-32, e ì suoi uomini s'ispirano a epoche passate. Ennio Caretto