In quale democrazia ci piacerebbe vivere di Maurice Duverger

In quale democrazia ci piacerebbe vivere L'ITALIA E I FATTI PORTOGHESI In quale democrazia ci piacerebbe vivere Il limpido articolo di Maurice Duverger sulla « transizione alla democrazia » nelle due situazioni esemplari del Portogallo e dell'Italia è tutto costruito sul filo del ragionamento politico. Per questo invita a un intervento. Mi sembra infatti che molti momenti e passaggi della storia italiana, della tensione portoghese — e del resto della situazione di tutti i Paesi — non possano chiudersi nel cerchio perfetto del ragionare politico sul fenomeno. Questo spiega la tensione con cui intellettuali e giornalisti italiani hanno incrociato argomenti e controargomenti nel grande dibattito sul Portogallo, l'appassionato « filo-militarismo » di scrittori come Antonio Gambino, per esempio, in una delle sue recenti colonne su L'Espresso. Non hanno tenuto conto abbastanza dei dati di fatto, delle cose, dei materiali con cui si compongono (o non si possono comporre) le formule politiche. Si discute infatti di « transizione alla democrazia » come se fosse un progetto prefabbricabile, una scatola del « fatelo da soli » con istruzioni per i Paesi più {tirili e i Paesi più difficili. « Chi muore di fame non si occupa delln libertà », sembra che abbia lasciato detto Nehru fra i suoi precetti politici, alla figlia che ora sta realizzando una dittatura. Eppure Nehru è stato un campione della libertà e anzi il simbolo di essa proprio nell'area della fame. Ma l'ombra di pessimismo che passa nella sua frase sembra dire chiaramente: con certi materiali si fanno certe cose, con altri materiali il risultato rischia di essere clamorosamente diverso, persino se si ha il dovere di non rinunciare alle proprie intenzioni. Politicamente il mondo oggi conosce solo due modelli: il crollo di una dittatura, che lascia il posto alla libertà e poi, se possibile, all'esercizio ordinato e regolato di essa, cioè la democrazia. E la fine della democrazia che muore di aggressione diretta (affermazione violenta di una dittatura) o si sfalda nella tensione, nel disordine e nelle lacerazioni che non può sopportare. Naturalmente chi discute il fenomeno, o lo studia o semplicemente se ne preoccupa, perché può pesare sul proprio destino, vorrebbe avere davanti i modelli « puri » dei due stati di libertà e non libertà. Di modelli di schiavitù — ad ogni titolo e sotto ogni bandiera — la storia è piena. Possiede invece pochissimi esempi « puri » del sistema di organizzazione, aggiustamento, armonizzazione e compromesso che chiamiamo democrazia. Si parla dell'Inghilterra, nella maturazione lenta dopo il sangue cromwelliano. Si pensa alla Francia nata alla libertà dopo il grande choc della rivoluzione e della restaurazione. Ma soprattutto si pensa all'America, modello integro perché continua a esistere cosi come è nato, frutto diretto della propria « rivoluzione ». Quali sono i materiali di questi modelli, e soprattutto del modello intatto, l'America? Essi sembrano essere una lunga presenza della classe media e dei ceti borghesi, in cui la proprietà si forma, si frantuma, si scambia e si confronta. Uno spazio adeguato di risorse che permette (o pioiuette) di raggiungere il livello di questa classe intermedia proprietaria e mercantile. E la presenza di un bene insieme reale e intangibile, ciò che gli americani chiamano genericamente ed enfaticamente opportunities. Questa espressione non significa solo la speranza di più be. nessere, ma la ragionevole attesa di potersi spostare in un ambito abbastanza ricco di scelte (compresi, s'intende, i rischi). Giustamente, mi sembra, il sociologo tedesco Habermas ricorda che il primo modello di « notizia », quello da cui trae origine l'intera macchina della libertà di stampa, è la « notizia mercantile », l'informazione di commercio e di borsa. La notizia mercantile aveva bisogno di essere protetta, non manipolata, attendibile per tutti gli uomini di affari. Le prime « gazzette » si sono sviluppate intorno all'interesse del borghese mercante di avere informazioni sicure e disinteressate (non quelle del re, non quelle guidate da un'idea) per regolare meglio i propri interessi. Mobilità, accesso dal basso e ingresso immaginato come indefinito verso l'alto, disegnano questa zona della storia e dell'organizzazione. Il punto di equilibrio chiede un governo meno forte di quello dei re e meno debole di quello dei clan e del puro e semplice interesse privato, perché l'uno porta all'oppressione e l'altro al conflitto. Con questo paesaggio si confronta l'analisi marxiana e la concezione della lotta di classe. E' una lunga storia dimostrare perché l'America abbia evitato il colpo —■ o almeno lo abbia stemperato in una conflittualità che emerge spesso e che è sempre episodica. Certo la sua storia ha il beneficio di spazio, risorse, opportunities e realistiche attese, che « tengono » in qualche modo la struttura sociale anche nei periodi di crisi. Ma un fatto è chiaro. La democrazia, col parlamento e i partiti, come noi la conosciamo, come molti di noi la celebrano, è nata nei ceti mercantili e borghesi, ha allargato il suo spazio contro i valori assoluti e « divini » a colpi di risorse, convenienze, interessi, di rispetto reciproco. E in della sua naturale tendenza al compromesso e all'aggiustamento dei conflitti, ha accettato un certo grado di socializzazione dei bisogni comuni e delle esigenze generali. Poi il suo nome, democrazia, si è esteso ad altre forme organizzative e ad altre speranze, ha segnato grandi modelli, guidato grandi lotte, e ricorda grandi delusioni. Nel celebrarne il valore è importante non dimenticarne il materiale, l'origine, dunque il limite. Se mancano le caratteristiche con cui questo tipo di delicato compromesso politico si forma, come una difficile formula chimica, il liquido del cambiamento sociale bolle fino all'esplosione ma non diventa la cosa desiderata. In altre parole non esiste alcun passaggio protetto verso la democrazia, alcun percorso intermedio. E non per amore di radicalismo parlamentare e democratico. Ma perché qualunque decisione di proteggere e preparare una democrazia che non c'è è già estranea alla natura del mondo liberale-borghese che ha inventato la formula. 1 militari portoghesi possono non essere colpevoli delle condizioni di arretratezza del loro Paese, ma non possono credere di « ingessare » la forma della vita politica da sinistra. La loro ingessatura non tiene, come non ha tenuto quella, non confrontabile, crudele, ma psicologicamente analoga, della « ingessatura » greca da destra. Duverger parla dell'esempio italiano e dice che è diverso perché nell'Italia del '45 i partiti hanno sùbito saputo e voluto governare insieme. E' vero. Ma intanto uno scatto creativo e produttivo forse unico in Europa stava dando una spinta incredibile al Paese e alle sue opportunities. Che esse siano sta¬ e o e a ¬ te in parte sprecate è l'amara storia del dopo, il triste raccolto di un regime in tracollo. E' opportuno ricordare qui l'osservazione di Amendola nel suo libro Fascismo e Movimento operaio, là dove raccomanda di non sottovalutare la forza del legame fra classi popolari e sentimento nazionale, e la legittima ascendenza di questo legame, la tradizione borghese-risorgimentale. Fra incomprensioni ed errori quel rapporto era sopravvissuto al fascismo e poteva dar vita, nel 1945, alla nuova democrazia italiana. Questa è la differenza rispetto alla situazione del Portogallo di oggi e dell'Italia di allora. La situazione « terzomondista » del Portogallo, che pone in prima fila come classe dirigente ideale solo gli ufficiali, deriva da una spaventosa mancanza di risorse e di opportunità. Nonostante lo sventolio di i bandiere, la probabilità che gli ufficiali siano una corporazione come le altre, in cerca di privilegi e di salvezza di casta (tutti dati estranei alla democrazia) resta forte e temibile. E anche coloro che amano la rivoluzione più del liberalismo parlamentare dovrebbero verificare più attentamente il pedigree dei propri cavalli favoriti. E più ancora delle intenzioni soggettive, il dato di fatto: una democrazia non si inventa e non si protegge, come non si ingessa la storia. La democrazia è il contrario di ogni forza protettiva persino benevola, e può solo garantire se stessa. Ma per tornare all'Italia di oggi, essa forse stenterebbe a reggere l'elogio che Duverger fa al nostro 1945, e l'apprezzamento di Amendola per il rapporto fra classi popolari e Paese. Non è stato insufficiente il nostro esordio alla libertà. E non hanno voltato le spalle, da sole e per prime, le classi popolari. Ma a colpi di malgoverno, le burocrazie si sono medievalizzate, i corpi separati sono diventati castelli, poteri diversi si contendono il territorio, ciascuno minaccia qualcun altro, gruppi e persone. Basta pensare al disastroso cedimento del sistema scolastico, che interrompe la catena che lega il sacrificio di oggi (lavoro, famiglia, risparmi, fatiche, speranze) e la legittima aspirazione, almeno per un figlio, domani. Il Portogallo è lontano dall'Italia del 1945, anche perché quel Paese non è stato liberato dalla rivolta del suo popolo. Ma anche l'Italia di oggi è lontana dal modello che si era data e dalla sua speranza legittima. L'alternativa è urgente, immediata. Prendere o lasciare tutto, compresa l'appassionata ostinazione di restare una democrazia. Furio Colombo

Persone citate: Amendola, Antonio Gambino, Duverger, Furio Colombo, Habermas, Nehru