Spettatori migliori ma per quali film?

Spettatori migliori ma per quali film? LA CRISI DEL CINEMA ITALIANO Spettatori migliori ma per quali film? La crisi aguzza l'ingegno. Accortisi, debito su debito, che in Italia troppo si fatica, per imbastire affari cinematografici, i produttori han preso la strada dell'America, ricco Paese di pionieri e capitali. Che è successo? La recessione ha malmenato un'industria già traballante. Quella italiana, e ha consentito all'industria che per decenni aveva dominato il mercato internazionale, quella statunitense, di riorganizzarsi. Riaccumulato il capitale, Hollywood riparte alla conquista del mondo. Il suo passo è, secondo il ferreo meccanismo dell'economia monopolistica, impeccabile e razionale. Il produttore italiano, fino a ieri illuso di essere coraggioso e competitivo, capisce e fa le valigie. Con anticipo l'aveva intuito Carlo Ponti. A ruota, dopo di lui. Dino De Laurentiis. Ora, il gruppo: Alberto Grimaldi, Franco Cristaldi, Giulio Sbarigia, Silvio Clementelli, Edmondo Amati e gli altri, le salmerie, l'intendenza e la sanità. Potevano decidere diversamente? Da una par- \ te il capitale e il mercato, dall'altra costi crescenti, sovvenzioni inceppate e profitto calante. Siamo al paradosso (spiegabile, nelle economie subalterne) che il costo di un film è più alto in Italia che in Usa, il valore dei divi casalinghi eccede ormai le dimensioni del mercato. Dove recuperare i 400 milioni che vuole Giancarlo Giannini, i 300 che pretende Laura Antonelli, i 200 di Renato Pozzetto, i 150 di Paolo Villaggio, « attori che come paga, dice sconsolato Sbarigia, sono a livello delle grosse vedettes americane »? Si parte senza rimpianti. Qualcuno versa una lacrima patriottica (un produttore — parole di Cristaldi — « è anche uomo profondamente legato alle tradizioni, alla civiltà, alla espressione artistica del suo Paese ») ma si tratta, com'è giusto, di un'eccezione. La crisi non solo aguzza l'ingegno e favorisce l'emigrazione ma crea anche le premesse di una nuova coscienza. E' sempre stato così. Uscita dalla depressione del '29 l'America sfruttò il boom del cinema sonoro ma dovette anche concedere agli spiriti arguti gualche esperimento di contestazione (accadeva lo stesso, e meglio, nel teatro), accettando che provocassero «some disturbance in the industry », come nel celebre caso di Delitto senza passione. Oggi riabbiamo la crisi e il fenomeno si ripete. Su scala più vasta. Robert Altman, Arthur Penn. Peter Bogdanovich, Sidney Poilack, Sam Peckinpah e tanti altri posseggono l'occhio — spesso la grinta — del contestatore. Da noi la coscienza si manifesta in modo più radicale, prendendo le mosse da lontano. Come il boato indistinto di una rivoluzione. Curiosa, contraddittoria rivoluzione. Sembra una fa- | vola complicata. Una volta c'era il prodotto (il film). Lo spettatore comprava (vedeva) dicendo: è bello, è brutto; è divertente, è noioso. Comprava come aveva imparato a comprare, seguendo i modelli del divertimento per riempire il tempo libero. Alcuni esercenti spericolati, in cerca di nuovi sbocchi economici, qualche critico e volonterosi organizzatori di cultura insoddisfatti di questi rapporti rigidi provarono a far circolare i prodotti cosiddetti difficili (film respinti dal mercato, film di Paesi fuori del giro americano, film sperimentali e di avanguardia). Qualche spettatore comprò. La scoperta dell'altra faccia della luna (la cultura) può essere un'esperienza emozionante. Allora, perché soltanto il j « difficile »? L'importante è non scambiare il film per un detersivo o per una cucina componibile. Così, esercenti critici e organizzatori riproposero con una serie di accorgimenti (personali, cicli, riesumazioni) anche il « facile » o addirittura il « volgare»: i film del terrore, il musical, il giallo, il fumetto, il western, la farsa e via frugando nei magazzini. Altri spettatori, sempre più numerosi, comprarono. Comprarono il bello e il brutto, il divertente e il noioso, perché per loro non era più quello il criterio della scelta. Intanto, sulla scia del '68, circoli e associazioni avviavano un po' dovunque programmi di cinema alternativo, distribuendo — talvolta producendo — « film poveri » o, direttamente, film politici di Paesi (America latina. Terzo Mondo) e di gruppi in polemica con le esigenze del mercato. Toccato dal vento insolito, 10 statale Ente di Gestione per il Cinema mette in cantiere film che contraddicono le regole dell'industria, li affida alle cure di registi esordienti. Un atto temerario ma sicuramente in linea con 11 senso del movimento. Tuttavia, vuoi per incapacità di diffusione (l'Ente non ha mai saputo fare il suo mestiere) vuoi per debolezza intrinseca, queste « opere prime » falliscono il compito loro e mancano di essere le antesignane del cinema diverso che gli spettatori attendevano. Il nuovo pubblico c'era, i nuovi autori non hanno risposto al suo appello. La cattolica Rivista del cinematografo se n'è chiesta il motivo e ha creduto di individuarlo nel fatto che neppure i giovani autori possono sfuggire alle leggi del sistema capitalistico di produzione, alla sua ideologia. Al rimprovero, se rimprovero era, uno di loro (Toni De Gregorio) ha reagito con un generoso atto di fede: « Noi amiamo talmente il cinema che continuiamo a pagare, e paghiamo realmente, di persona, ogni nostro errore, accumulando dispiaceri professionali e debiti ». La favola complicata, che il narratore è costretto a semplificare vergognosamente, volge al patetico e si approssima alla sua verità. Tanti sforzi per arrivare qui, per riscoprire l'amore del cinema? Se amare — sostengono molti — significa voler essere autori, meglio non amare. « Non ci interessa, avverte una delle più attive associazioni del pubblico, la Federazione dei Cineforum, lavorare alla moltiplicazione degli autori, individualisticamente intesi, perché in questo modo contribuiremmo soltanto a dare un'altra faccia (più rispettabile forse, ma niente più) all'immutata realtà della produzione culturale borghese ». / Cineforum, che sono alla « ricerca di un modo effettivamente collettivo di produrre e di far cultura », si riuniranno presto a convegno per discuterne, ponendo in prevalenza l'accento sull'uso del formato ridotto. Tutto può servire per far cinema, per comunicare. E tutti possono comunicare, non solo quanti si ritengono autori. Meglio, tutti hanno da comunicare, non solo quelli che il modo di produzione dominante ha delegato a farlo. I termini del problema sono finalmente, e crudamente, in luce. La crisi ha aguzzato l'ingegno ma non ha ucciso il sistema, naturalmente. Chi vuole, può minimizzare. Agli autori che si ostinano a esser tali per soverchio amore si addice, sotto il fuoco di tanti avversari, la scettica consolazione di Proust: « Nous sommes tous obligés, pour rendre la réalité supportable, d'entretenir en nous quelques petites folies ». Nessuno ci garantisce che il cinema non abbia più bisogno delle loro follie. Ma un fatto è certo: la curiosa e contraddittoria rivoluzione cinematografica di questi anni è sfociata quanto meno in una grande conquista teorica, grazie alla quale oggi si rifiuta di considerare il pubblico come un elemento del mercato e si comincia a vederlo come un soggetto di cultura o, se si preferisce, come il creatore di una cultura diversa. Da realizzare in proprio, fuori o contro il mercato. F. Di Giammatteo Laura Antonelli

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