L'operaio sovietico che discute i capi
L'operaio sovietico che discute i capi I film in rassegna a Venezia L'operaio sovietico che discute i capi «Premija» di Mikaelian: il contrasto fra la classe operaia e il potere burocratico (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 5 settembre. Mentre fra l'ammirazione dei cineamanti e l'esecrazione dei filistei si svolge la «personale» di Chantal Akerman, «enfant prodige» del cinema belga, abbiamo captato una solinga «proposta» del cinema sovietico. Premija, del regista teatrale e cinematografico Serghei Mikaelian, è un film serrato e grave, abbastanza ardito rispetto alla tematica ufficiale perché prospetta in tutta evidenza un contrasto tra la classe operaia e il potere burocratico che le sta sopra. L'operaio Potapov, caposquadra in un cantiere edile, rifiuta il premio che i superiori gli offrono per il suo buon rendimento, e persuade i compagni a fare altrettanto. Perché questo gesto? Perché egli sente che quel premio è una lustra per nascondere gravi deficienze nella conduzione dell'azienda. Troppo spesso manca il cemento, troppo spesso il lavoro s'interrompe: sicché il salario degli operai si assottiglia. Il comitato del Partito si riunisce per giudicare il caso, fissando severamente quel Potapov, forse alticcio o addirittura ubriaco. Ma l'oncst'uomo, traverso e placido ma incrollabile (un tipo alla Kruscev), coi suoi bravi quadernetti e con la testimonianza d'una compagna conI (abile che depone con molta trepidazione, dimostra ai suoi giu| dici d'avere sostanzialmente ragione. Tre di questi, col pensiero al jadreghino, gli sono ostili; altri tre favorevoli. Il segretario che regge le fila si sovviene in buon punto d'un detto di Lenin sulla insopprimibilità del vero. La decisione ai voti. Tre a favore, tre contro. Ma poi il direttore del cantiere, quello che più ce l'aveva con Potapov, si ravvede, e alzando la mano gli assicura la maggioranza. Qualcosa muterà nella programmazione di lavoro. Per la struttura a dibattito, il critico Cosulich ha menzionato La parola ai giurati di Lumct. Si, ma con molto meno di spettacolo e una tensione di gran lunga inferiore. Però la composizione di Premija, sostenuto dalla bravura dell'attore Evgheni Leonov, è rigorosa. Il dibattito c I il vero protagonista e si ripercuote da un volto all'altro con felice scelta di tempo e un pathos drammatico, tutto slavo, che giunge alle lacrime. A saperlo leggere, il film rivela interne afflizioni del sistema produttivo sovietico, dipendenti da ragioni più o meno comuni a tutti i regimi. Buona parte del pubblico e della critica lo ha vivamente apprezzato non meno sul piano ideologico che sullo stilistico, c nella successiva conferenzastampa col regista e con un critico sovietico aggiunto, ha trovato modo di formulare molte domande e non tutte infruttuose. E' un punto a favore della Biennale-cinema, che invece che dai Isoliti aulici polpettoni, la Russia vi si sia fatta rappresentare da un'opera così aderente alla realtà sociale. Uno sguardo al cinema del «buon tempo antico» fu costante prerogativa della mostra del Lido. La Venezia del «nuovo corso» ha voluto esserle fedele. Volgendo al termine la bella retrospettiva di Griffith e del muto hollywoodiano, ci è venuto voglia di rivistare Seventh heaven («Settimo cielo»), che ci ha riportato al 1927, al fulgore della coppia Janet Gaynor-Charles Farrell. Per potenziale di candore, la Gaynor fu certamente la più gran « giovane donna » del suo tempo, recitante sulla quinta corda d'un patetismo assoluto, non più raggiunto; e Ferrell, torreggiarne e buono come il pane, le fu degno compagno in questo e in tanti altri film. La vicenda del giovane operaio delle fogne innamorato d'una fanciulla povera e da lei separato per colpa della guerra è d'un romanticismo cosi struggente che surrealisti e avanguardisti, invece d'adontarsene, vi lessero una fraterna simbologia, l'amore inteso come irrecusabile magnetismo (la parte che nel racconto ha l'immagine del vestito da sposa) e «divina alterità». Il film, come sanno i colti, poi rifatto «parlato» da Henry King, con James Stewart e Simone Simon, fu uno dei più fortunati (ma non in Francia dov'era fittiziamente ambientato) fra i molti di Frank Borzage, il patriarca del genere sentimentale, fragile all'impressione ma granitico nella sua logica interna non meno che nel suo favore presso il pubblico. Nei suoi momenti migliori, come appunto in Settimo cielo, il sentimentalismo gli riuscì lirico, ma non per questo distratto o campato in aria, anzi molto attento alle particolari circostanze sociali e storiche (l'odio per la guerra) in cui si svolgevano le sue favole per lo più «a coppia fissa». Pur di non guastarsi l'incanto, Charles non avrebbe mai toccato neppure un capello alla sua Janet. Oggi soltanto, in pieno «boom» erotico, si capisce quanto egli fosse savio e in fondo astuto. Speriamo che Settimo cielo, Il dottor Jekyll di Robertson e altri dei più rari pezzi di questa retrospettiva sdrucciolino presto in qualche sala culturale o, perché no?, sul teleschermo. Leo Pestelli
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