Se muore anche il "Times" di Mario Ciriello

Se muore anche il "Times" S'AGGRAVA LA CRISI DELLA STAMPA INGLESE Se muore anche il "Times" Dei grandi giornali di Londra non uno è in attivo: calano le vendite, salgono i costi (Dal nostro corrispondente) Londra, settembre. In quest'interminabile, caldissima estate inglese — tanto eccezionale che lo scrittore Malcolm Muggeridge vi scorge «qualcosa di sinistro», quasi un preludio dell'apocalisse finale — i torpedoni dei turisti percorrono ancora Fleet Street e le guide additano i palazzi lungo la « via della stampa ». Ma dietro i vetri e le antiche pareti di « El vino » e degli altri pub e club dei giornalisti, ci si domanda con amara ironia se un giorno forse la storica strada e l'intero quartiere non saranno visitati e ammirati come monumenti gloriosi di un tempo che fu, di una Inghilterra tramontata. In America, come ha scritto su La Stampa Vittorio Zucconi, « è cominciata l'età del fantagiornalismo » ed « entro il 1980 tutti i giornali saranno automatizzati ». In Gran Bretagna, invece, si è in una fase dove si sa quali dovrebbero essere gli obiettivi e dove ovviamente si spera di arrivarvi, ma dove ancora non si sa se sarà possibile compiere lo sforzo. La meta è chiara: un giornale in cui l'elettronica riduca i crescenti costi e in particolare i più sfiancanti, quelli di lavoro. Ma per approdare a queste dorate sponde bisogna superare prima innumerevoli barriere coralline, ognuna delle quali comporta rischi e sacrifizi. Bisogna sopravvivere alla recessione e all'inflazione, alla carenza di pubblicità, ai conflitti sindacali, alla penuria di soldi. Sono vicende che possono sembrare remote al lettore non-inglese, e non lo sono. Il futuro di Fleet Street riguarda tutti, oltre la Manica e oltre gli oceani. In un mondo in cui la vera libertà di stampa è ridotta ormai a pochissimi Paesi, i giornali angloamericani rappresentano più che mai gli unici canali planetari d'informazione. Chi sono i giornalisti più espulsi e più vessati in Asia, in Africa, in Sud America, nelle nazioni vecchie e nuove? Quelli dei media statunitensi e britannici. Fedeli a una tradizione secolare, gli « inviati » e i «corrispondenti» anglosassoni percorrono il globo e raccolgono quelle notizie che sono poi riprese dagli organi di tutti i continenti. Dei cosiddetti giornali nazionali, quelli cioè che da Londra si diffondono in tutto il Regno Unito, non uno conosce più le gioie di un profitto. Tutti, dai fogli « di qualità » come il Daily Telegraph, il Guardian, il Times e il Financial Times, ai « popolari », come il Daily Mirror e altri, dai domenicali a quelli della sera, tutti hanno visto scendere le vendite. Unica eccezione: il super-popolare Sun, il cui successo è dovuto a un unico motivo, alla tenace applicazione della formula descritta in Fleet Street, con anatomica accuratezza, come « tits and bums » (tettine e deretani). Ogni giorno una ragazza nuda, fiorente ma senza malizia (YEconomist ha commentato: « Allora, è vero. Il sesso rende ») ma in un anno il Daily Express è calato di oltre il dieci per cento, l'ottimo Guardian dell'otto, il Financial Times del sei virgola cinque, il Times del sei virgola otto, VEvening News del venti per cento. Bancarotta Vendite giù, pubblicità giù: allo stesso tempo, tutti i costi in implacabile ascesa. Il costo della carta è salito del cinquanta per cento tra il '73 e il '74 e del trenta per cento tra il '74 e il '75. Le spese di distribuzione sono aumentate del 25 per cento in tre anni: e in misura più o meno simile s'è appesantito l'onere di salari e stipendi. Vero è che le vendite restano complessivamente altissime (gli otto quotidiani nazionali, quattro di qualità e quattro popolari, distribuiscono ogni mattino quattordici milioni trecentomila copie) ma non bastano a sostenere il delicato equilibrio finanziario delle aziende. I fogli migliori, adesso cari per le tasche inglesi, non riescono a conquistare nuovi lettori. Il Times, che arrivò nel '68 a mezzo milione, vende ora 327 mila copie, il Guardian 336 mila e il Financial Times, ricco però di pubblicità, 186 mila. Su almeno tre testate grava minacciosa l'ombra della bancarotta, della chiusura. Sul Daily Express che, in un solo anno, è piombato da tre milioni 227 mila copie a due milioni 894 mila e che sembra incapace di adattarsi ai nuovi gusti, di ritrovare il brio postbellico. Sul tetro Evening News, che per salvarsi, deve risparmiare entro il 31 dicembre circa tre miliardi di lire. E, ahimè, sul famoso Observer, la cui posizione resta quanto mai fragile nonostante l'accordo con i sindacati per una riduzione « volontaria » di circa il 25 per cento nel numero dei dipendenti, giornalisti tipografi e impiegati, 300 persone su 1200. Le Unions hanno domandato a David Astor, direttore del domenicale un tempo di sua proprietà ma affidato successivamente a un trust, se fosse certo che il sacrifìcio avrebbe tenuto in vita l'azienda. « No, ha rispo sto, la situazione è tale che non si può garantire nulla ». I sindacati non hanno protestato. E come avrebbero potuto farlo, dopo che i loro rappresentanti ed esperti avevano studiato per due mesi i libri contabili? Dopo aver scoperto che la situazione finanziaria era ancor più drammatica di quanto pensassero gli amministratori? Il leader dei tipografi, inflessibile in passato, ha detto: « Non c'erano scelte. L'Observer e tutti noi eravamo come un naufrago che sta per affogare e si aggrappa ad un fuscello. Ma continuerà a galleggiare questo fuscello? ». La paura serpeggia in Fleet Street, e, per la prima volta nella storia di questa industria, i sindacati sembrano disposti a negoziati con gli editori per eliminare una piaga tipicamente britannica, l'ouermanning, l'eccesso di personale. Talvolta vi sono resistenze ma i proprietari, fino a ieri prudenti, non esitano a giocar duro, come è avvenuto al Daily Mirror. « Purtroppo, i problemi di Fleet Street resterebbero enormi anche se ì giornali non pagassero più ì dipendenti ». E un'iperbole ovviamente, ma il sindacalista che l'ha pronunciata non ha falsato la realtà. Si torna così a quanto detto all'inizio. I quotidiani e i domenicali di Fleet Street sanno che bisogna creare aziende più snelle, sanno che bisogna abbracciare la nuova tecnologia elettronica, ma si dibattono fra tante e tali traversie, alcune create dal glorioso e florido passato, dal loro gigantismo, che potrebbero spirare nel tentativo di evolversi. Vi riusciranno forse il Times (che perderà quest'anno un miliardo e mezzo di lire) e il Sunday Times, perché hanno dietro di sé l'impero giornalistico, televisivo e ora petrolifero di Lord Thomson. (Qualche anno fa, il Lord canadese accusò il Times di spendere i suoi quattrini « come un marinaio ubriaco»). Vi riuscirà l'ottimo Financial Times, che diverrà uno dei giornali più computerizzati del mondo. Vi riusciranno il Daily Mirror e il Daily Telegraph, ma sul futuro degli altri sarebbe incauto scommettere. Molto dipenderà dalle decisioni del governo, che Fleet Street esorta con ansiosa insistenza a concedere prestiti a basso tasso d'interesse. «In j Inghilterra, ha scritto Astor, ! non ci sono più giornali con ] risorse finanziarie come quel- le ad esempio, del New York Times. Senza prestiti dello Stato, o meglio ancora della Comunità Europea, le grandi testate non saranno in grado di versare le sostanziose liquidazioni richieste da dipendenti in cambio di dimissioni volontarie e tantomeno d'investire nelle nuove costosissime attrezzature elettroniche ». E' un grido d'aiuto al quale il governo, impegnato com'è nella sua nuova austerity, non ha finora risposto. Molti ministri laboristi non sono commossi da questi lamenti, rispondono: « Arrangiatevi, avete fatto miliardi per anni, non ci sono soldi per nessuno ». E indicano il successo — qui come altrove — della stampa provinciale, dei piccoli fogli di quartiere, vere miniere d'oro. Costi modesti, i impianti moderni, pubblicità e diffusione garantite. Senza censure Ma i grandi giornali britannici — ripetiamo — sono una necessità internazionale non meno che nazionale. In un mondo ove la stampa è sempre più soffocata dal potere politico ed economico, dove interi continenti non conoscono che pubblicazioni «controllate » o « ispirate », la perdita di un Guardian, di un Times, di un Financial Times, di un Daily Telegraph, di un Daily Mail e persino di un irriverente Daily Mirror sarebbe una perdita per tutti. Già ne son morti tanti di giornali, la strada è seminata di cadaveri, tra i quali eroi di bellissime battaglie come il News Chronicle e il Daily Herald. E' un panorama che rattrista, quando si pensa che la libertà di stampa è nata qui, nel 1695, con l'abolizione della censura; quando si ricordano tutte le occasioni in cui i giornali hanno fatta proDna la risposta del duca di Wellington a un ricattatore «pubblish and be damned» (pubblica e va al diavolo). Molti economisti dicono: « Ci sono troppi giornali. Ne bastano la metà ». Ma gli economisti sbagliano ormai tanto spesso che si può anche sperare nella smentita di questa profezia. Mario Ciriello

Persone citate: David Astor, Lord Thomson, Malcolm Muggeridge, Vittorio Zucconi