Le cannonate di Bava Beccaris

Le cannonate di Bava Beccaris SULLO SPARTIACQUE DEL '98 Le cannonate di Bava Beccaris Quando usci la prima edizione della mia Opposizione cattolica ventuno anni fa, nel giugno del 1954, la sopracoperta non mancò di fare rumore e di suscitare un certo scandalo (già il titolo, sia pure riferito all'ultimo trentennio dell'Ottocento, appariva paradossale o provocatorio, con la democrazia cristiana saldamente assisa al governo del Paese, determinante per qualunque coalizione nonostante lo scacco elettorale del 7 giugno di un anno prima, scacco che non si era poi limitato ai soli cattolici, che aveva investito egualmente le forze di democrazia laica). In quella copertina era riprodotta un'immagine tratta dalle memorie di don Davide Albertario, Un anno di carcere: il battagliero direttore dell'Osservatore cattolico di Milano, l'alfiere animoso e focoso dell'intransigenza clericale ammanettato fra due regi carabinieri sullo sfondo delle dolci campagne lombarde di Filighera. Un momento plastico dell'opposizione cattolica cominciata con Porta Pia e protrattasi per quasi tre decenni: la corrente clericale associata alla socialista e alla repubblicana e alla radicale nella spietata repressione del 1898, le opposte ali di destra e sinistra ricongiunte dalla cecità di Bava Beccaris, neanche l'abito talare capace di fermare la mano delle forze dell'ordine, così come sul versante della sinistra estrema neanche le garanzie parlamentari erano riuscite a scongiurare l'arresto di un Turati o di un Bissolati o di un De Andreis. Albertario... Il nome era poco noto fuori dai confini degli « addetti ai lavori ». Quella iinea di lotta ad oltranza con tro lo Stato « risorgimentale » e « scomunicato » era stata su perata e sostituita ad un certo momento, dopo la svolta del 1929, dal « conciliatori smo » più stucchevole. Messi in ombra i momenti di rottura; esaltati solo gli spiragli di tregua o di distensione « ante litteram », alla Bonomelli o alla Scalabrini. Steso un velo pietoso su un'intera fase, e certo non secondaria, nell'organizzazione del laicato cattolico in Italia: la nascita, in termini moderni, della vera e propria « Azione cattolica », come scudo del magistero papale, come strumento di un infallibilismo non limitato certo alla sfera spirituale o di coscienza. Dal 1929 al 1943 era stato quasi impossibile parlare di quel mondo, rievocare quei personaggi: addolcite le storie dei seminari, «adeguate» quelle delle scuole pubbliche. Salvo poche e coerenti eccezioni, l'Università Cattolica per esempio, un monsignor Olgiati o pochi altri, il « milieu » dell'intransigentismo, dominante nelle file cattoliche fino a Giolitti, era relegato in una prospettiva secondaria, quasi confinato in un angolo. A parte i contrasti assai aspri tra fascismo e Azione cattolica (e si trattava dei progenitori diretti), non avevano interesse a riprendere quel filo né i cattolici democratici, appartati dalla lotta politica, esuli in patria, né i cattolici inseriti nel fascismo o « ralliés » ad esso. Dopo la Liberazione, quel versante restò egualmente negletto, e per motivi diversi. Rinasceva una democrazia cristiana, partito di governo e poi di maggioranza, che si ricollegava direttamente al neo-guel fismo (il movimento di Malvestiti fu una delle prime radici culturali dello Scudo crociato), che poteva risalire al primo od anche al secondo Gioberti, che in taluni, nei più avvertiti, giungeva ad evocare il filone dei « piagnoni » savo naroliani e magari Tommaseo o Gino Capponi. Ma erano sempre titoli di nobiltà o di legittimità « risorgimentale ». Mai un'ascendenza, al grande e complesso e composito par tito dei cattolici italiani, che fosse ritrovata o ricercata nel l'« Opera dei Congressi », l'organismo nato nel 1874 per riunire il laicato fedele al Papa prigioniero e rivendicante, sia pure sulla carta, Roma vatica na (contrapposta a Roma ita liana: « Roma o morte », si gridò ancora in un congresso cattolico, e già a secolo nuovo, rovesciando il motto di Garibaldi), o tanto meno nella sua sponda più estrema, più intemperante: quella appunto di Albertario. Un prete, don Albertario, armato di molta passione e di un po' minore misericordia, che aveva invitato i cattolici ad odiare il nuovo stato di cose, il nuovo ordinamento unitario e costituzionale scaturito dal Risorgimento « con tutte le forze dello spirito »: « odiare sempre, odiare con lo scritto, coi fatti, colle parole, odia¬ re in modo che l'odio divenga natura nostra e tutti lo veggano, lo sentano, l'imitino o 10 temano; odiare come in cielo si odia il peccato, odiare tanto che l'odio al liberalismo sia uguale all'amore alla fede e a Dio ». Un prete che in un congresso cattolico evitava di citare con nome e cognome Garibaldi « per non contaminare l'aura sacra di questo recinto ». Un prete che non si arrestava neppure di fronte a Manzoni, « un ingegno che abbracciò a metà la verità... ». Cosa significava quel processo evocato nella copertina di tanti anni fa? E quel prete ammanettato voleva dire chiusura di un'epoca o apertura di un nuovo clima di anticlericalismo ancor più agguerrito di quello alimentato da Crispi o da Rudinì? In quelle pagine non avevo ombra di dubbi: il '98 segnava uno spartiacque fra due mondi, consacrava la fine di un'epoca. Terminava la lotta su due fronti, contro il « pericolo rosso » e contro il « pericolo nero », combattuta con eguale durezza dagli ulti mi stanchi epigoni di una classe dirigente risorgimentale che aveva perduto la fede nei grandi valori di libertà. Finiva una concezione dello Stato italiano come un campo trincerato, da difendere su entrambe le sponde. La repressione di Bava Beccaris, i successivi governi Pelloux rappresentavano un colpo di coda, l'ultimo sussulto degli ambienti retrivi di Corte, della destra liberale incline al « principato costituzionale » alla prussiana, dei fautori della interpretazione restrittiva dello Statuto albertino: sussulto che si infrangerà sugli scogli dell'ostruzionismo parlamentare, che alimenterà il blocco dei partiti popolari, che favorirà 11 nuovo corso liberale, postregicidio di Monza, incarnato all'alba del secolo nuovo da Zanardelli e soprattutto da Giolitti. Nuovo corso anche verso i cattolici. Vedo con piacere che quella mia lontana tesi, sul '98 come « spartiacque », è ripresa e sostanzialmente condivisa da uno studioso marxista di grande talento, Umberto Levra.. cresciuto alla scuola torinese di Guido Quazza, autore di un libro uscito in questi giorni, presso Feltrinelli, con un titolo che non sarebbe dispiaciuto a don Albertario: Il colpo di Stalo della borghesia (e nel sottotitolo « La crisi politica di fine secolo in Italia 1896-1900 »). E' un libro singolare: parte dalla denuncia di un « disegno di reazione istituzionalizzata », appunto il colpo di Stato della borghesia, che coinvolge tutti, destra e sinistra liberali, monarchia e clericali, che trova troppo deboli resistenze a sinistra, e poi in ogni pagina smentisce l'assunto centrale con un'indagine minuziosa, penetrante e veramente illuminante dei fatti. E' il de stino degli studiosi seri: quando credono al documento (e Levra ci crede, e lo dimostra) vedere le loro posizioni di partenza sfumate e gradualmente smentite dall'« infinito mareggiare della storia», come avrebbe detto Mcinecke. La realtà del '98 emerge, dalla ricostruzione di Levra, in tutta la sua complessità e sinuosità. Certo, ci fu un momento di panico di quella frazione della borghesia al potere (mai la borghesia fu compatta nell'Italia post-risorgimentale: e figurarsi allora!) che temeva di non riuscire a resistere più al movimento operaio avanzante, tallonata sull'altra sponda da un'opposizione cattolica giunta col congresso di Milano del 1897 al massimo della sua forza: sullo sfondo del fallimento di Crispi, dell'umiliazione di Adua, della crisi, incipiente, della stessa politica triplicista. Ed ecco la linea di repressione su due fronti, che caratterizzò i governi Rudinì, che si mosse dalle circolari dell'autunno 1897 per arrivare all'arresto di don Albertario. Certo, c'è una linea Rudinì che non basta più nel giugno del '98, dopo le tante vittime di Milano, dopo l'assalto al convento dei Cappuccini scambiato per un nido di rivoltosi, dopo i mendicanti confusi coi rivoluzionari; e allora la Corona esce allo scoperto, Umberto I sceglie un militare con fama generica e non meritata di progressista, punta a Pelloux con l'eterna illusione del governo dei funzionari, e Pelloux prima maniera ha la benevola attesa della sinistra parlamentare, salvo poi rompere con essa un anno dopo e scegliere la via del « decretone ». delle misure liberticide, che non passeranno. Levra chiama Pelloux « il generale bifronte ». Ma tutto è « bifronte » nella crisi del 1898-99. Non c'è nulla di unitario: né nella repressione dei cattolici né nel successivo « ralliement » con essi, né nell'arresto dei socialisti né nella successiva « mano tesa » di pochi anni dopo. C'è solo la « grande peur » di una vasta frazione del mondo moderato, che non ha fiducia in se stessa, che rimpiange Crispi dopo averlo abbattuto. E che si preparerà alle sconfitte e alle delusioni che inevitabilmente accompagneranno, nella storia d'Italia, i tentativi borghesi di difendersi al di fuori dei princìpi e del metodo della libertà. Giovanni Spadolini