I perché della tragedia

I perché della tragedia I perché della tragedia Dietro la tragedia di Murisengo vi sono almeno tre argomenti di interesse psicologico: la personalità dell'accusato, la probabile meccanica dell'incidente, e, ultimo ina non meno importante, quel particolare riferito dalla cronaca, secondo il quale Remilo Delù era ritenuto da lutti lo ascemo del paese». Si è parlalo, innanzitutto, di feticismo: il Delù collezionava indumenti femminili che poi nascondeva nella cava abbandonala; la sua passione per questi oggetti l'aveva spinto perfino a rubarne. Il feticismo è una forma di perversione e chi ne è afflitto concentra l'interesse sessuale, esclusivo o prevalente, su certe parti del corpo o su certi oggetti. Il feticista soffre di una profonda paura di castrazione: la mancanza di un pene nella donna rappresenta per il suo inconscio una tormentosa minaccia; egli, infatti, teme di subire la sua stessa sorte. Per difendersi da questa angoscia, «ìiega» quella mancanza e vive i suoi feticci come gli equivalenti simbolici di una donna non evirata. Questo «rito» lo rassicura e con la sicurezza gli ridona la capacità sessuale. Il comportamento del feticista è influenzato da un modo di pensare primitivo, regredito, magico. Per il feticista, come per il selvaggio, infatti, l'oggetto adorato è abitato dallo «spirito», è l'equivalente di una persona: per il feticista, come per l'uomo primitivo, il feticcio è dotato di poteri magici: la sua presenza, infatti, pilo dargli quella potenza sessuale di cui altrimenti sarebbe privo. Per questo attribuisce all'oggetto un valore sproporzionato al suo valore reale. Ma può essere conciliata con l'accaduto la fama di cui godeva l'accusato, di individuo «incapace di fare del male»? Si può aprire, a questo punto, un discorso sullo «scemo del paese» come, con bonaria crudezza, erano, da sempre, chiamate quelle persone che, benché ritenute anormali, venivano tollerale e mantenute nelle comunità paesane. Si trattava di individui dal comportamento stravagante, dalle facoltà mentali compromesse, al limite della psicosi, ma che «non avrebbero fatto male ad una mosca». La gente si difendeva dalla paura dell'ignoto, dell'incontrollabile e della follia, proiettandola fuori di sé, per aggeli ualizzarla, per controllarla «a vista» per dimostrare l'inesistenza del pericolo. La gente pensava inconsciamente: «Non dobbiamo avere paura della demenza, della follia, dei demoni sconosciuti perché, ogni giorno, possiamo vedere che lo "scemo" che li inI canta non fa male a nessuno». Il paese ripagava con la libertà, l'affetto e la benevolenza il suo «stregone» innocente per la funzione, inconsapevolmente altri'minigli, di «tranquillante sociale». E, in effetti, questa funzione salvava lui e gli aliti da una più reale follia. Nella vita civilizzata delle metropoli questo esorcismo collettivo, questo addomesticamento della follia non è più possibile: «lo scemo» non può più venire assorbito, integralo nella comunità per svolgervi un ruolo positivo: la «follia» deve essere isolata. Anche a Murisengo l'antico, saggio sistema sembra non aver più funzionato: la follia è sfuggita di mano, è diventata reale e pericolosa. Non ci sembra, purtroppo, l'eccezione che conferma la regola: anche i paesi, ormai, indipendentemente dalle distanze fisiche, sono culturalmente saldali alla città: siamo tutti, ormai, più vicini, più simili anche nella incapacità ili difenderci dall'alienazione. Gianni Tibaldi

Persone citate: Delù, Gianni Tibaldi

Luoghi citati: Murisengo