Il rogo di Hiroshima

Il rogo di Hiroshima Il rogo di Hiroshima Il lento volo della "Superfortezza" americana sull'obbiettivo, la luce che fece impallidire il sole, lo sgomento dell'equipaggio - Dopo le prime 70 mila vittime, la grande ecatombe provocata dalle radiazioni II 6 agosto di trent'anni la alle otto. Quindici minuti e diciassette secondi, dalla stiva di una « Superfortezza volante » americana B-29 usciva la prima bomba atomica della storia: obbiettivo, individuato dal maggiore Tho- mas Ferebee, bombardiere \ del B-29, il « punto zero », un ponte chiamato Aioi sul fiume Ota, ad Hiroshima, città sitila costa sud-occidentale di Honshu, l'isola principale del Giappone, con poco meno di 400 mila abitanti. Non aveva alcuna rilevanza il « punto zero », obbiettivo puramente convenzionale per il mirino di Ferebee, né aveva importanza Hiroshima, fino a quel momento praticamente ignorata dalla guerra. Era soltanto la prima di una rosa di città sulle quali, a seconda delle condizioni atmosferiche, i mas simi responsabili militari americani avevano deciso di far cadere Little Boy, come avevano battezzato la prima atomica a uranio U-235. Il quadrimotore B-29, battezzato Enoia Gay dal nome della madre del suo comandante, colonnello Paid W. Tibbets jr., era partito alle 2,45 dalla pista di Tinian, nelle isole Marianne, non senza qualche diffico'.tà: il generale Farrel. che comandava le operazioni di partenza della missione, al momento in cui J'Enola Gay sollevò le ruote dal suolo, a pochi metri dal fondo pista, I esclamò: « Non ho mai vi sto un aereo usare tanta pista, credevo che Tibbets non lo staccasse più da terra ». Con il B-29 di Tibbets erano partiti altri due aerei, muniti di apparecchiature i | \ ! per rilevare gli effetti prodotti dallo scoppio e dalle radiazioni; a loro volta i tre quadrimo'.ori erano stati preceduti da altri ricognitori, che avevano il compito di segnalare a Tibbets, in base alle condizioni atmo- \ sieriche, se Little Boy do- I ÓHn caso di^stro^ i veva cadere su Hiroshima, j Kokura, Nìigata o Nagasaki. Durante il volo Tibbets fu avvertito dai ricognitori che per Hiroshima era «tut| to OK». A bordo sapevano di portare un carico eccezionale, come eccezionali era\ no le disposizioni date per ! quel bombardamento, diverso dai precedenti. Tra le misure che Tibbets aveva prescritto all'equipaggio c'era quella di indossare, alcuni attimi prima del lancio, occhiali scurissimi da tenere fino ad esplosione avvenuta. C'erano stati problemi piuttosto complessi da risolvere alla partenza. La sera del 4 agosto quattro B-29 con lo stesso peso che avrebbe dovuto portare Z'Enola Gay (soltanto Little Boy pesava più di cinque tonnellate) non erano riusciti a sollevarsi dalla pista di Tinian e si erano schiantati a fine corsa. Il rischio era gravissimo: se Enoia Gay tentava il decollo con la bomba innescata (com'era nei piani per precisi motivi tecnici), « avrebbe fatto scomparire l'isola dalla carta geografico- me affermò Farrel. Ci si dovette perciò fidare dell'abilità del capitano Parsons, l'artificiere che, calatosi nella stiva poco dopo il decollo, riuscì con non poche difficoltà ad innescare la carica detonante dell'esplosivo, alla luce d'una torcia elettrica retta dal sottotenente Jeppson. Anche con questi mezzi di fortuna si preparò la tragedia di Hiroshima. Il maggiore Ferebee vide l'ordigno uscire dalla stiva del B-29 e puntare verso terra, del tutto simile ad una grossa bomba convenzionale, mentre l'aereo, improvvisamente alleggerito di cinque tonnellate, veniva sbalzato verso l'alto, e Tibbets cominciava un'ampia virata per allontanarsi il più possibile dalla zona dell'esplosione. L'equipaggio delJ'Enola Gay racconterà più tardi di aver visto, parecchi chilometri sotto di loro, un punto di luce rosso porpora che si allargò ad una velocità impressionante, diventando una enorme palla color fuoco, che fece impallidire la luce del sole, già alto nel cielo. Poi. con una successione rapidissima, il globo a sua volta esplose in una « massa smisurata di fiamme e nubi », con una colonna bianca proiettata verso l'alto, tra anelli di nebbia: a 3000 metri la colonna si allargò in un fungo mostruoso, che in breve arrivò a 15.000 metri. Nessuno degli uomini delJ'Enola Gay aveva assistito agli esperimenti dei mesi precedenti nel deserto del I New Mexico: lo spettacolo i li sgomentò per un attimo. Il secondo pilota, Lewis, mormorò alla radio: « Mio Dio, che cosa abbiamo fatto », e sul giornale di bordo, al culmine dell'operazione. ebbe soltanto il coraggio di annotare due parole: « Mio Dio ». Poi subentrò una specie di euforia isterica, ognuno urlò nelle cuffie degli altri frasi banali f« E' finita, ce l'abbiamo fatta »;. Qualche migliaio di metri più in basso, Hiroshima non esisteva più. Little Boy era « scoppiato » a seicento metri dal suolo. I testimoni superstiti, quelli che erano a parecchi chilometri dal « punto zero », raccontarono poi di aver notato tre paracadute che scendevano lentamente: pensarono che da un aereo in avaria l'equipaggio si fosse buttato per salvarsi, erano invece strumenti di misurazione che i due aerei in formazione con /'Enoia Gay avevano buttato qualche attimo prima della bomba. Ebbero appena il tempo di percepire un bagliore accecante, e subito urta « ventata » a 1200 chilometri l'ora fece volare case, uomini, tutto. Non avvertirono neppure il calore che carbonizzava la pelle, o disintegrava tutti quelli che si trovavano a meno di tre chilometri dal « punto zero », « stampando » letteralmente le loro immagini sulla terra. Nessuno dei sopravvissuti è in grado di dire quanto tempo passò, forse soltanto pochi minuti, poi su migliaia di esseri silenziosi, apatici, che cominciavano ad aggirarsi inebetiti, silenziosi in mezzo ad un'atmosfera dal grigio notte a strani riflessi gialli e rossi, cominciò a cadere una pioggia innaturale, fatta di enormi gocce nere e oleose che picchiavano come martellate. E migliaia di persone si accorsero all'improvviso di non avere più abiti addosso, o di averne alcuni brandelli che bruciavano, cominciarono a guardarsi in faccia e si accorsero che non erano più volti umani, la pelle si staccava come una fodera mostruosa, lasciando scoperte le carni piagate e tumefatte. Un soldato vide venirgli incontro nella nebbia giallastra un cavallo rosa, che lo guardava con occhi imploranti: era stato letteralmente spogliato della sua pelle, come di un abito. Senza un lamento, si formarono lunghe colonne di corpi martoriati, avviate verso mete inesistenti; e quando la coscienza cominciò a ridestarsi fu un'esplosione di dolore e di terrore collettivo; chi ancora aveva la forza cercava i propri cari, i bambini, spesso senza riconoscerli tanto le fisionomie erano alterate, ma i più erano destinati a morire in poche ore. A sera squadre di soccorso arrivate dai dintorni entrarono in quella che era stata ima città e tentarono di organizzare posti di pronto soccorso in mezzo alle macerie e ai cadaveri carbonizzati. Si formarono grandi cataste di morti per bruciarli: i soccorritori volevano frenare le epidemie, nessuno si rendeva ancora conto che l'« epidemia » più grave era quella atomica, ! che il fall out avrebbe risparmiato, anche a distanza di settimane, mesi o anni, ben pochi. Ai bagliori degli incendi che erano durati tutto il giorno, malgrado la lunga pioggia nera, si aggiunsero quelli delle cataste di morti e qualcuno si accorse che l'odore acre « di sardine bruciac¬ chiate », come affermò un testimone, che proveniva dalle pire, destava un perverso istinto vitale, stimolando l'appetito dei superstiti. Le morti si susseguirono, per giorni e settimane, al ritmo di qualche centinaio di persone all'ora. Si calcolò che l'esplosione aveva ucciso subito oltre settantamila abitanti di Hiroshima, altri duecentomila morirono per le ustioni o « appestati » dall'acqua diventata radioat ■ tiva nei mesi immediatamente successivi. A Tokyo la notizia ebbe l'effetto di dare sempre più voce a quanti, anche della corte imperiale (compreso lo stesso Hiro-Hito) e del governo civile, ritenevano inevitabile la resa, contro il parere dei militari oltranzisti. I giapponesi avevano perso su tutti i fronti ed erano ormai ridotti, praticamente, alle loro isole. Era fallito il tentativo di cercare un'altra soluzione che non fosse la « resa senza condizioni» tramite l'Unione Sovietica che, anzi, l'i agosto dichiarava a sua volta guerra al Sol Levante. Il 9 agosto un'altra atomica veniva sganciata dagli americani su Nagasaki. In pochi giorni il Giappone capitolò. Noji poche furono le riserve che affiorarono, anche tra gli americani, prima ancora di Hiroshima, per l'uso della bomba atomica. Soprattutto alcuni scienziati che avevano partecipato al « progetto Manhattan » si dicevano atterriti all'idea delle conseguenze dell'esplosione atomica, che pure non conoscevano ancora in tutta la loro ampiezza. Truman, alla conferenza di Potsdam, informò Churchill e Stalin pochi giorni prima di quel che stava per succedere, ma nessuno, tranne alcuni collaboratori militari del presidente americano, sembrò valutare l'atomica come qualcosa di molto diverso da una « superbomba». Il presidente Truman, durante il viaggio di ritorno in America sull'incrociatore Augusta, ricevette la notizia dell'avvenuta esplosione da un messaggio del segretario alla guerra Stimson: diceva che « la grande bomba » era stata sganciata con risultati «chiari e riusciti sotto tutti gli aspetti ». Al capitano Graham, che gli aveva consegnato il dispaccio di Stimson, il presidente disse: « Questa è la cosa più grande di tutta la storia ». Gianfranco Romanzilo j Pellegrinaggio sull'epicentro dello scoppio