CE UN RITORNO AGLI ORDINI CONTEMPLATIVI di Francesco Rosso

CE UN RITORNO AGLI ORDINI CONTEMPLATIVI CE UN RITORNO AGLI ORDINI CONTEMPLATIVI Psicoanalisi in convento Anche nell'antica Certosa fondata da San Bruno le aspre regole dell'eremitaggio incominciano ad addolcirsi - I rapporti col mondo esterno si fanno più angosciosi: mettono alla prova la sincerità di molte vocazioni e il significato della clausura oggi (Dal nostro inviato speciale) Serra San Bruno, agosto. Oltre il portone verniciato ili verde c'è il silenzio e, nonostante il sole e i fiorì che illeggiadriscono i chiostri, c'è anche una sensazione di malessere profondo, come se tanta pace non fosse che il paravento dietro cui un mondo inafferrabile celebra i suoi riti spesso esaltanti, talvolta angosciati. La Certosa di Serra San Bruno, una delle ultime tre ancora attive in Italia, propone interrogativi inquietanti; non si riesce ad afferrare subito la causa del disagio che si prova entrando, ma lo si sente serpeggiare tra le aiuole orlate di mortella, nei giardinetti delle celle fioriti di ibisco scarlatti, tra i ruderi della facciata della chiesa cinquecentesca e le poche arcate del chiostro che vi era annesso, scampati al terremoto del 1783. Non che si avverta la presenza del Maligno, intendiamoci, ma anche qui il mon¬ do bussa con veemenza sempre maggiore, propone i suoi problemi urgenti ed angosciosi anche agli eremiti che hanno « cercato il deserto », li trascina loro malgrado nel vortice di un'esistenza che non può più essere quella di San Bruno da Colonia, il fondatore dell'ordine certosino. Dopo il Concilio In quegli anni lontanissimi, poco dopo il Mille, la vita contemplativa aveva un significato, gli anacoreti erano l'espressione di una religiosità legata al tempo che l'esprimeva, tempi che inducevano l'uomo ad abbandonare il mondo ed a cercare nell'eremitaggio la pace che fuori non trovava. Ma oggi, dopo il Concilio Vaticano II, che significato ha ritirarsi in un eremo e trascorrere le ventiquattro ore del giorno in preghiera, meditazione, qualche po' di lavoro manuale, isolati per lo più, ed in silenzio anche quando i buoni certosini sono insieme? La regola di San Bruno, o della Grande Chartreuse, ha voluto fondere l'eremitaggio con la vita in comune, ma la comunanza è puramente visiva; il pranzo una volta la settimana consumato nel refettorio comune non dà sollievo alla solitudine, i monaci mangiano in silenzio. La camminata sotto i portici del chiostro è una passeggiata da solitari, perché anche qui il silenzio è di rigore. Padre Salvatore, un bresciano chiuso in Certosa \ da quarant'anni, e ne ha oggi sessanta, ad un certo momento mi ha trattenuto per un braccio e mi ha detto: « Ascolti ». Sì, il silenzio in cui eravamo immersi era così intenso che poteva anche far male, e fui grato ad una rondine che saettò stridendo nel cielo terso, ma non si può trascorrere anni ed anni dialogando silenziosamente con Dìo. « Si può, risponde padre Salvatore, si può; dopo tanti anni siamo ancora qui ». Obietto che di novìzi non ne vengono più a rinsanguare le schiere ormai esauste per i molti anni e la vita di privazioni, e che anche coloro che resistono, ecco, non sempre hanno la forza per tener duro fino alla fine. Quanti monaci sono rimasti qui a Serra San Bruno? Diciotto in totale, più il \ priore; undici padri, sette fratelli laici, chiamati anche conversi, o donati, quelli che fanno i lavori più umili, ed osservano la regola con mi- nor rigore. Sono decisamente pochi per questa Certosa, certo la più venerabile dopo la Grande Chartreuse dalla quale i certosini partirono alla conquista spirituale del mondo. Così pochi che ad un certo momento la Casa Generalizia, tuttora stabilita in Francia, presso Grenoble, aveva deciso di chiuderla; aveva già inviato agli eremiti ed ai conversi laici la lettera con cui li invitava a scegliersi la Certosa che più gli era congeniale; la Farneta di Lucca, la Vedana di Belluno, oppure in Svizzera o in Francia. Per giungere a tale decisione, la Casa Generalizia dei certosini doveva avere i suoi motivi. Gli eremiti sono pochi a Serra San Bruno, è vero, e la Certosa non è in buone condizioni economiche benché disponga di vaste proprietà terriere, ma chiudere proprio la Certosa fondata da San Bruno, il padre dei certosini, pareva enorme; era come chiudere la Grande Chartreuse, come chiudere Montecassino per i benedettini. Era un centro di irradiazione religiosa che aveva radici lontane nel tempo, addirittura nel 1091, quando San Bruno da Colonia la fondò. Bisogna tener presente la data per capire le ragioni che hanno spinto San Bruno, uomo dottissimo anche se attratto dalla vita contemplativa, a scegliere questo allora sperduto angolo di Calabria per fondare una Certosa. Era papa Urbano II, ed in Sicilia era re Ruggero I il Normanno; tutta la Calabria era in mano dell'Impero d'Oriente il quale, oltre a inviare truppe per mantenere militarmente il possesso di quella che era stata la Magna Grecia, si serviva per la sua penetrazione in Italia anche del monachesimo bizantino; tutta la Calabria divenne così una sterminata tebaide di monaci basiliani. Ruggero I il Normanno pensò che prima ancora che con la spada, si potesse combattere l'influenza di Bisanzio con la fede, e poiché allora era in buoni rapporti con papa Urbano II, si fece aiutare per convincere San Bruno ad aprire una Certosa in Calabria. La presenza certosina in questo remoto angolo della i boscosa serra calabrese è dovuta, innanzitutto, alla ragione politica. Ciò non toglie che San ■ Bruno abbia condotto qui ■ un'esistenza fra le più austere e faticose; il luogo che i i aveva scelto per sé e alcuni : ! suoi compagni più fedeli, un insieme di grotte nelle qua: li dormivano sulla nuda pie! tra, era tanto aspro che per j I | i I ! ! | I j ! j | ; J ! . ' i i ! 1 } i i ! ì 1 i ! ] 1 I i novizi decise di costruire un po' più distante una Certosa che offrisse qualche comodità. La vita della Certosa non fu pacifica, già pochi anni dopo la morte di San Bruno i certosini furono cacciati e il monastero fu affidato ai cistercensi; a loro volta dovettero restituirla ai certosini i quali però furono nuovamente cacciati nel 1808 da Gioachino Murat divenuto re di Napoli. Furono reinsediati nuovamente nel 1840 grazie a Ferdinando II di Borbone. Nonostante le traversie, i certosini rimasero fedeli alla rigidissima regola che, si disse. « non fu mai riformata perché mai deformata ». Ma oggi si affaccia alla Certosa un nuovo medioevo, e non sarà facile anche ai certosini di saldo carattere resistere a richiami suadenti, il consumismo ha varcato anche le porte della clausura più rigida, il comfort offerto dalla tecnologia insinua i suoi sottili veleni. Ho visto celle riscaldate con stufe a cherosene, e a Serra San Bruno, ricostruita interamente nel 1900, e rammodernata ancora nel 1950, in ogni cella c'è l'acqua corrente. Niente di male, intendiamoci, ma le aspre regole dell'eremitaggio incominciano ad addolcirsi ed i raffronti con il mondo esterno diventano pressanti, addirittura angosciosi. Prima dì venire a Serra San Bruno ho letto un romanzo singolare, Roma senza papa, di Guido Morselli, e mentre percorrevo il chiostro, i vialetti, o conversavo con il priore, il francese padre Pietro Anquez. mi tornavano con insistenza alla mente alcune idee centrali del libro; ad esempio, la presenza del Sulfureo anche nel- le espressioni più intense della vita contemplativa e la necessità di esorcizzarlo. Morselli proietta l'azione del suo libro romanzato in una Roma marcescente sul finire di questo secolo, ma alcune situazioni potrebbero essere emblematiche. Esorcizzare il Sulfureo, ma come? Un certo frate belga, Lemercier, ha tentato in Messico l'esperimento introducendo \ in convento la psicoanalisi, Freud e Jung possono aiuj tare i monaci a ritrovare se stessi, la sincerità della loro I vocazione. Ricordo una lun| ga conversazione con l'ex i padre Lemercier a CuernaI vaca alcuni anni or sono e benché ridotto allo stato laicale, benché sposato, benché sospeso a divinis, continuava a sentirsi profondamente monaco. Ecco, se anche a Serra San Bruno, o nelle altre comunità di clausura, fosse ammessa la psicoanalisi, l'indagine sul comportamento intimo del monaco, sulla sincerità della sua vocazione, quali risultati darebbe? Impossibile prevederlo, ma forse la tragedia non avrebbe planato fosca sulla Certosa, e, chi sa, il giovane priore olandese Willibrardo Pijnemburg avrebbe scoperto le radici nascoste dell'angoscia che lo torturava. Invece, si è appeso alla trave della sua cella. Eccesso di preoccupazioni, lavoro, responsabilità, grave esaurimento, si disse. Tutto vero, indiscutibile, ma oltre allo schermo materiale del disagio, c'era l'ombra nera di un mistero che egli non è riuscito a decifrare. "Né vili, né eroi" Quale significato può avere ancora, in questo nostro tempo, la vita di clausura? Un giovane professore di qui, Maurizio Onda, ha scrìtto un saggio dal titolo: Certosino: vile o eroe? Il priore padre Anquez ascolta, tace, sorride, scuote il capo. « Né l'uno, né l'altro. Non fuggiamo il mondo perché lo temiamo, non siamo eroi perché la vita contemplativa non richiede eroismo; è una libera scelta che abbiamo fatto ». Però siete seni! pre meno numerosi, e le vo! cazioni mancano. « Tutti i | conventi, i monasteri, i seI minari si svuotano, ma ciò j non significa nulla; la vita contemplativa è un'esigenza dell'uomo; l'hanno sentita Abramo e Mose, l'ha sentita Gesù, la sentono gli uomini d'oggi che vengono qui, a pregare con noi, in solitudine ed in silenzio, anche se non prendono il saio del certosino ». Padre Anquez era stato mandato qui nel marzo scorso, dopo la ventata di tragedia, per liquidare la Certosa. C'erano diciotto monaci, di cui solo quattro italiani; gli altri sono davvero prodotti di tutto il mondo; c'è persino un monaco cinese, Piccolino e fragile, padre Sing, che trascorre le ore libere assorto in pittura. « E' anche un modo di pregare, oltre che di svago », dice. C'era un americano, Lehmann Leroy, che ha scatenato l'uragano della curiosità esterna. Era su lino degli aerei che hanno sorvolato Hiroshima per sganciare l'atomica. Non fu lui a premere il mortale pulsante, era su un aereo addetto ai controlli, ma fu ugualmente sconvolto da ciò che vide. Finita la guerra si fece certosino, ed arrivò a Serra San Bruno. Un giornalista lo scoprì, e la pace della Certosa ebbe fine: dovettero trasferirlo per tener lontani giornalisti di tutto il mondo. Pochi monaci, difficoltà finanziarie, una tragedia; bisognava chiudere. A Serra San Bruno sono insorti. Petizioni al vescovo di Squiilace, al Papa, ad esponenti politici, sciopero della fame di alcuni giovani, sotto una tenda, dinanzi alla Certosa. j II 25 maggio il priore paI dre Anquez si recò alla Grande Chartreuse al Capitolo generale; fu persuasivo, la Certosa non si chiuderà e, pare voglia dirmi padre Anquez, non ci sarà bisogno dì psicoanalisi per scongiurare il Maligno: « Siamo semI pre i figli di San Bruno ». \ In municipio esultarono, la '■ chiusura della Certosa offenI deva la sensibilità religiosa ! dei serrani, ma avrebbe daj to un colpo mortale al na' scente turismo estivo. A 850 metri d'altezza, immersa in freschi e folti boschi, la piccola città vive d'agricoltura, ma anche dell'apporto delle migliaia di pellegrini che vengono a pregare sulla tomba di San Bruno, effigiato leziosamente nel marmo abbandonato su alcuni sassi in una grotta che, sicuramente, non è quella in cui visse e morì. Francesco Rosso