Il solitario del pci di Vittorio Gorresio

Il solitario del pci GLI 80 ANNI DI UMBERTO TERRACINI Il solitario del pci Primo di entrare In cllnica, Vittorio Gorrcslo aveva lascialo questo articolo per gli 80 anni del senatore Terracini. Siamo lieti di pubblicarlo mentre 11 nostro amico, superato bene l'Intervento cbirurgico, affronta Il periodo della ripresa: sappiamo che in un futuro non lontano potrà ricominciare a scrivere per La Stampa. Tramite nostro, innumerevoli amici gli rivolgono auguri di rapida guarigione. Arrivato a ottantanni, Umberto Terracini è il naturale decano del partito comunista italiano non tanto per ragioni anagrafiche, quanto per diritto politico: non solamente è l'unico superstite dei magnifici sette (Bombarci, Bordiga, Fortichinri, Gramsci, Misiano, Polano e Terracini) che il 30 ottobre 1920 firmarono a Milano il manifesto-programma per la costituzione della frazione comunista nel psi, ma è pure l'ultimo dei grandi che abbia conosciuto Lenin e discusso con lui. Più che una gloria da veterano, Terracini la considera un deposito di esperienza, che ha cercato sempre di mettere a frutto. Racconta: « E' vero, ho parlato con Lenin. Gli espost le tesi che mi parevano giuste in quel tempo, ma che Lenin mi distrusse perché venate di irrazionalismo non marxista. Mi disse che bisogna calcolare le forze effettive prima di attuare una strategia. Che lezione mi diede. Ebbi l'impressione, da come andava il colloquio, che Lenin mi giudicasse uno stupido ». Difatti Lenin ebbe ad esprimere sul conto di Terracini apprezzamenti poco lusinghieri, che più tardi Togliatti diffuse in tutta Italia. Non e qui il luogo né il momento di evocare certe diatribe meschine o quanto meno poco generose, anche perché alla fine Terracini è giunto a conquistarsi un rispetto affettuoso dei compagni. E' un tardivo compenso che lo rimerita di molte sofferenze traversate nel suo stesso partito, che lo hanno duramente provato perché in realtà è delicatissimo di sentimenti, e sente bisogno non soltanto di stima — che nessuno a eccezione di Lenin gli ha mai negato — ma anche di umana simpatia e di calore. Riconoscendolo <: antidemagogico per sistema, contrario alle violenze oratorie, ragionatore sottile, fermo nella polemica fino all'aridità e alla cocciutaggine », Piero Gobetti tuttavia lo aveva già visto condannato all'isolamento fin dai tempi lontani della loro comune giovinezza torinese. Egli deve averne patito, ma non per questo si è mai sottratto al dovere imperioso della propria logica politica. Non ha difatti mai esitato davanti a posizioni di fronda, a condizione che corrispondessero al rigore del suo ragionamento marxista. Quando il partito — nei mesi caldi del 1969 — pareva scosso dalle rivendicazioni della cosiddetta nuova sinistra (che diede poi origine allo scisma del « Manifesto ») Umberto Terracini fu implacabile: « E' gente — disse dalla tribuna del XII Congresso, a Bologna — che si esprime in un linguaggio figurato che non ha nulla del marxismo scientifico ». Era gente che esaltava tutte le forme nuove delle spontanee manifestazioni delle masse operaie e studentesche, « ma non sa dirci poi come dovremmo indirizzare od applicare le cariche di energia che se ne sprigionano ». Rivoluzionario di professione, tutte le carte in regola ben più di quelle di molti altri, a Terracini è sempre ripugnato l'uso di immagini di tipo bellicoso: «Non basta proclamare che occorre il passaggio dalla guerra di posizione alla guerra di movimento. Bisogna anche stabilire, come, quando, con chi e contro chi si deve combattere. Quali sono i nostri Palazzi d'Inverno da assaltare? ». Bolscevico serio della vecchia scuola, Terracini non ha mai confuso la rivoluzione con le esplosioni giovanili, del maggio francese o degli studenti di Berkeley in California. Temè ad un certo momento che il partito, o per lo meno la Fgci, si lasciasse andare a uno scivolone, facendosi contagiare dalle mode, e reagì contro corrente. Non gli importava di affrontare i giovani a viso aperto: « Questa nostra Fgci — disse una volta — mi sembra che non abbia capito niente. E' sempre stata sorda alle rivendicazioni dei giovani lavoratori, poi d'improvviso adesso si è buttata in braccio al sommovimento universitario o addirittura delle scuole medie. Se ne lascia travolgere, ed ho sentito la proposta aberrante che siano spianate tutte le strutture organizzative, con relativa abolizione di tessere, quote e bollini, e sostituzione con non so che cosa: collettivi informa¬ li, se ho capito ». Sillabò le due parole collcttivi informali per mettere nella pronuncia un accento di disprezzo e continuò: « Ma siamo matti? Con l'illusione di combattere il burocratismo, andiamo dritti all'autodistruzione. E' come vuotare la bagnarola versando insieme all'acqua anche il bambino dalla finestra ». Nei gruppi giovanili c'è sempre stato chi lo considerava « un defunto », con la sbrigativa alterigia degli impazienti: « Che rivoluzionari pensano di essere, mancando di pazienza? », ritorceva Terracini. « I bolscevichi hanno seguito una strada diversa. Andatevi a ristudiare i concetti di Lenin sullo spontaneismo », poi aggiungeva con un ammonitore accento nasale. Ma se condannava le forme caotiche della agitazione giovanile, la stessa grave diffidenza gli era propria nei riguardi di altre novità ogni tanto affioranti, che gli apparivano confusionali. La proposta di Amendola — anni fa — per un partito nuovo di lotta dei lavoratori per il socialismo? « E' improponibile, insostenibile, sbagliata ». Compromesso storico? « Attenzione a non dimenticare che la politica delle alleanze deve essere ancorata nel terreno della lotta di classe. Ci siamo entusiasmati una volta per un rivoluzionario dello stampo di La Malfa, e poi per Piccoli, e adesso per Moro. Basta che nel contesto di un loro lunghissimo discorso ci sia una paroletta che ci riguarda, e noi ci sdilinquiamo ». Bolscevico da sempre, Terracini non ha mai esitato a criticare il Pcus e l'Urss, se gliene pare giusta l'occasione. Nel 1934, quando era in carcere, rifiutò di accettare i deliberati del VI Congresso del Comintern che dichiaravano già incominciata, od almeno imminente, la terza fase della storia mondiale, quella cioè della rivoluzione trionfante. Nel 1939, sempre in carcere, disapprovò il trattato di amicizia Stalin-Hitler. Nel 1947, da presidente dell'Assemblea Costituente, concesse al giornalista americano Kingsbury Smith deìVInteriiews un'intervista in cui diceva di augurarsi un incontro fra Stalin e Truman, nell'interesse della pace. Era il 20 ottobre del '47, e solo pochi giorni prima, a Byalistok, il Cominform aveva sancito che non si patteggiasse più in alcun modo con i nemici del proletariato, cosicché Terracini si poneva — consapevolmente — su posizioni eretiche. Aggiunse di peggio: ipotizzò che l'Unione Sovietica si comportasse come aggressore, e avverti che in ogni modo il popolo italiano è sempre in grado di capire da quale parte venga un'aggressione. « Allora il concetto del non intervento non si applica solo all'America », postillò quasi incredulo Kingsbury Smith. « Infatti esso vale anche per l'Unione Sovietica », rispose tranquillo ma deciso Terracini. Mi disse poi Kingsbury Smith che per maggiore propria sicurezza si era fatto ripetere e tradurre tre volte l'ammissione che l'Urss potesse macchiarsi del delitto di scatenare una guerra. Affermazioni tanto spregiudicate erano molto pericolose per un comunista, in altri tempi. Quando Terracini era in carcere, nel 1934 come nel 1939, Mauro Scoccimarro che era detenuto con lui gli applicò la sanzione dell'isolamento dagli altri comunisti reclusi, perché questi non avessero a restare contagiati da eresie antipartito. Nel 1947, essendo Terracini presidente dell'Assemblea Costituente — cioè il secondo uomo della Repubblica, subito dopo il capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola — il problema era ancora più delicato, ed il pericolo maggiore. La direzione del partito dov'è comunque risolversi a condannare opinioni « che possono soltanto servire a disorientare le masse lavoratrici ». E' in casi come questi che si vede la disciplina del rivoluzionario, in quanto rivoluzionario non dilettante: Terracini fece la sua brava autocritica, ma continuò ad essere tenuto in una specie di quarantena, ed al congresso di Milano del 1948 gli fu data la parola solo in seduta notturna, fra distrazione e sonno generali. Oggi si gode nel partito di una più larga libertà di opinione e non si parla di eresia ad ogni piccolo polemico stormire di fronda. Se così non fosse, Terracini sarebbe stato ormai da lungo tempo relegato fra i rejetti, dato che egli è più volte recidivo nell'atteggiarsi a libero critico della linea del partito. Al congresso di Bologna del 1969, parlando in tema di politica internazionale rifece un colpo paragonabile a quello dell'intervista con Kingsbury Smith. Infranse uno dei tabù carissimi al pei, quello che vuole gli arabi tutti innocenti ed Israele tutto e solo colpevole: « Saluto — disse nel Palasport — gli arabi che sono qui, e so che a loro è dato il giusto appoggio del movimento comunista internazionale per la lotta contro l'imperialismo, ma io so anche che nei loro Paesi i comunisti stanno in galera ». Ci fu un momento di gelo, mentre gli interpreti traducevano agli invitati marocchini, egiziani, libanesi, siriani ed algerini, e Terracini intanto si animò per accusare i suoi compagni di partito: « Che coerenza è la nostra? Io non accetto!». Fu il suo grido più alto, quella mattina, e d'altra parte proprio questo « io non accetto » è stato sempre uno dei punti di forza di Terracini. Non ha accettato mai di giustificare la politica di Mosca nei confronti degli ebrei sovietici, sotto qualunque forma di ipocrisia gli fosse presentata, né del pari ha accettato alcuni tatticismi ai quali è sembrato talvolta ricorrere il pei, esitando ad esigere la messa fuori legge del msi, che Terracini da gran tempo reclama. Ancora un'ultima citazione mi sembra necessario trarre dall'intervento di Terracini in un dibattito tenuto a Milano il 2 aprile di quest'anno sul libro II sovversivo dedicato da Corrado Stajano a Franco Serantini. Il vecchio vero rivoluzionario non si lasciò difatti sfuggire l'occasione ideologica per mettere in guardia contro la concezione dottrinaria di cui era campione Serantini, «quella che a confronto con la realtà è sempre apparsa la più astratta, quasi apparentata all'utopia: dico l'anarchica che proprio per questi motivi non ha mai levato bandiera sulle vaste masse ». Ma c'era da onorare la memoria di quel povero Franco massacrato, e Terracini naturalmente non si sottrasse al dovere, e pronunciò parole appropriatissime: « Franco Serantini non fu mai un vinto e non si era arreso mai alla malvagità, all'ingiustizia, alla perfidia, alla violenza sover chiante dei ceti dominanti, onde fu ucciso a punizione della sua tenace volontà di battersi sempre e di battersi ancora ». Era detto assai bene, umanamente: ma Terracini non riusciva a dimenticare che in quanto anarchico Serantini aveva sbagliato strada, e tenne quindi ad ammonire ancora: « Questa idealità anarchica fu sogno perseguito da pochi grandi isolati, dall'animo incorrotto e generoso, che non riuscirono però ad inserirsi nella storia, né vi hanno inci so con la loro azione, tuttavia fiera ed eroica ». Intenda chi può, sembra che dica Terracini dall'alto della sua lunga esperienza militante rivoluzionaria: o il comunismo inteso bene, o convulsioni velleitarie. Vittorio Gorresio