L'arrivederci di Gorresio di Vittorio Gorresio

L'arrivederci di Gorresio L'arrivederci di Gorresio Chi non conosce La fine di mi regno di Raffaele De Cesare sulla caduta dei Borboni di Napoli nell'anno 1860, farà bene a consultarne la recente bella edizione curata da Longanesi: ne sarà stimolato a istruttivi raffronti con gli avvenimenti politici di questi giorni, che segnano difatti la fine di qualcosa: se non di un regno, del regime clie per trent'anni abbiamo sperimentato come abbastanza borbonico. I paragoni, naturalmente, vanno fatti su un piano e con un grac'o di ragionevole relativit.'., ma il senso delle storie parallele dei de e dei borbonici mi sembra intatto e convincente. E' la fuga, anzitutto, degli iscritti al partito democristiano, che a quanto leggo sui giornali stanno facendo la fila davanti alle porte delle sezioni del pei, alla questua di tessere possibilmente retrodatate. Anche De Cesare racconta di cose simili avvenute a Napoli centoquindici anni fa, quando erano in molti a farsi rilasciare attestati di benemerenze liberali, carbonare, garibaldine, o che so io. Ma dov'è il nuovo Garibaldi? Di faccia, Enrico Berlinguer non gli assomiglia effettivamente molto: però bisogna dire che egli ha saputo raccogliere e portare alla vittoria l'insegna dell'eroe di cui Togliatti si era fatto un simbolo nel 1948. E' andata meglio a Berlinguer che si trova davanti una de depopulata come il regno di Napoli nel 1860. Allora teneva la scena politica l'astutissimo Liborio Romano, ministro di eccezionale capacità sia per i tempi pre-garibaldini che per quelli postborbonici: che possa essere Aldo Moro il Liborio Romano dei giorni nostri? Egli si offenderebbe, a sentirselo dire: eppure è certo che ci vuole qualcuno che si prenda cura del passaggio dal regime di ieri a quello di domani, e soprattutto badi ad impedire che i borbonici sconfitti in campo aperto dal Garibaldi-Berlinguer non si adducano un'altra volta al brigantaggio, come un secolo fa. Con la loro esperienza di franchi tiratori, già li dobbiamo considerare sufficientemente addestrati. Ma è stato un regno od un regime, il potere de negli ultimi trent'anni? Propenderei per il regime, anche perché ad avere intelligenza onesta della storia nessuno osa paragonare Fanfani a Franceschiello, a quel povero Francesco II che ignorò sempre che cosa fosse il potere e quale il modo per esercitarlo. Questa volta sarebbe Fanfani ad offendersi, lui che il potere lo conosce ed ha mostrato di saperne l'esercizio. Diciamo quindi che le analogie rimangono limitate alla riapparizione di borbonici e garibaldini, e veniamo alla Fine di un regime come De Cesare avrebbe intitolato il suo libro se avesse scritto la storia dei nostri giorni. Quando qualcuno la scriverà, sentiremo forse la mancanza non solo di un De Cesare, ma anche di un Guido Morselli, il quale chi sa cosa sarebbe riuscito a cavare dalle rappresentazioni svolte sulle scene di Palazzo Sturzo all'Eur. Magari ci penserà un giorno Pasolini, tentato da raffronti come quelli SalòSade. C'è difatti da fare il paragone tra i due 25 luglio, '43 e '75, e si può essere colpiti da un'affinità a contrario: la prima volta il fondatore del regime fu esautorato sulla base di un ordine del giorno Grandi: la seconda, al fondatore di turno è stato fatale un ordine del giorno Piccoli. Non faccia ridere la contrapposizione fra grandi e piccoli, che in realtà non ha senso, dato che non si tratta di misurare uomini ma di notare solo che tutti e due, Piccoli o Grandi, hanno fallito la scalata al seggio del fondatore del regime. E tutti e due con grave rischio politico futuro: va bene a Piccoli che proprio in questi giorni sia morto Skorzeny, perché se mai avesse a ritornare sulla scena — recuperato chi sa come — lo sconfitto fondatore del regime di oggi, Piccoli farebbe bene a rifugiarsi all'estero, come Grandi a suo tempo. E' bensì vero che il Portogallo, dove andò Grandi, oggi non è accogliente come allora, ma è sempre necessario stare in guardia, come ebbe il torto di non fare Ciano nel 1943. Si chiuda insomma Piccoli nel suo castello trentino del Buon Consiglio e stia a guardare possibilmente lontano, dato che lo si accusa di tradimento in un Paese come il nostro dove la vendetta si perpetua come istituto nelle migliori famiglie (e tale è la de). Anch'io sono già all'estero, quindi al riparo da ogni faida in tempi di facile rappresaglia contro i giornalisti critici del regime (Ghiotto, Pietra, Isman eccetera). Non è comunque per paura, e tanto meno per darmi importanza di vittima o bersaglio: è che martedì 29, di prima mattina, proprio quando questo giornale andrà in edicola, io sarò sottoposto da un maxilochirurgo di Zurigo ad una grossa operazione. Bene che vada, mi sarà tolta materialmente la parola per molto tempo (bisogna resecare e poi rifarmi la mascella sinistra che è insidiata da un tumore) ed il silenzio che mi sta davanti mi sembra sarà come un lungo sonno. Dato il mestiere che faccio il non poter comunicare diminuisce la stessa capacità di vedere, e quindi adesso saluto tutti e mi addormento, ripromettendomi di tornare un giorno a domandare in giro come — frattanto — saranno andate le cose. Chi sa mai che sorprese, e a rivederci. Vittorio Gorresio

Luoghi citati: Napoli, Portogallo, Zurigo