Itinerario attento alle cose da fare di Angelo Dragone

Itinerario attento alle cose da fare Itinerario attento alle cose da fare Si deve al lento deperire di ogni cosa — ma ne sono spesso più gravemente responsabili il gretto tornaconto o certe difficoltà economiche, l'indifferenza generata dal cattivo gusto e la permissiva connivenza d'una distratte, autorità — se ogni giorno si perde qualcosa del « volto » della nostra città. E tanto più in quanto Torino conta pochi edifici veramente monumentali (più facili da tutelarsi) distribiiti in un ampio contesto architettonico che spesso comprende costruzioni meno appariscenti, ma d'un valore non so'.tanto ambientale. Nella loro stessa nuda uniformità, non è raro infatti ch'esse rivelino l'autenticità di forme e di tinte destinate a dare alle partiture architettoniche un loro carattere e un loro sapore, giovando all'insieme come al singolo edificio. Si tratta a volte di « valori » che si sono conservati intatti per secoli, giunti a noi soltanto in certi particolari o nell'edificio «minore», ma anche in quelle cose da nulla quali possono sembrare l'insegna di un negozio e il tono d'un colore, la continuità di una linea di gronda o il coerente allineamento delle facciate di edifici contigui. Ed è significativo che se tutto questo troppo spesso sembra non far più presa su chi vive quasi abituandosi ad ogni degradazione, non sfugge però al forestiero che ne coglie subito la singolare importanza: proprio perché vi si riassumono valori culturali, morali e spirituali d'una tradizione che merita d'essere non sol- ! tanto salvata, ma valorizzata. E' dunque più che giusto 1 l'invito rivolto dalle autorità i comunali ai proprietari dei ; vecchi edifici perché ne assiI curino la decorosa conservaI zione con opportuni restauri I e nuove tinteggiature, ma si ; lodi soprattutto chi, sull'esempio del vicino, in questi ; mesi ha sentito la necessità di farlo spontaneamente, accelerando cesi un processo attraverso il quale molti giovani , potranno scoprire per la prii ma volta i veri lineamenti della loro città consolando insieme i vecchi torinesi, fe^ liei di potervi tornare a leggere chiaramente i segni di un'arte antica da loro apprezzata e che va conservata non soltanto come un patrimonio I estetico, ma come la testimonianza viva e diffusa d'una civile eredità, fatta di tradizioni culturali e di sentimenti. Nel tempo, purtroppo, mol| ti di questi documenti si soì no persi; ne rimangono tutj tavia abbastanza e nonostan! te le carenze di una tutela 1 che di frequente resta affidata più all'iniziativa del sin- ■ gaio che all'interessamento . della collettività, non v'è dubbio che un organico piano di riqualificazione delle più belle facciate del vecchio centro torinese (per pensare però subito dopo agli interni di innumeri cortili, androni, scale ed androncini in cui tanto ■ spesso si possono scoprire dei veri « tesori » soprattutto • di barocco piemontese), costituisce un impegno che va segnalato e sostenuto, perché possa essere coerentemente sviluppato nello spirito d'una necessaria valorizzazione del- i 1?. città. « Coerentemente », s'è detto; come d'altra parte vuole 10 stile d'una architettura che s'è manifestata in un proprio crescere armonico. Si veda ad esempio in via della Consolata, sul lato a ponente, la formale continuità che si instaura tra la facciata ideata dal Plantery per Palazzo Paesana (1715-1720) e quella meno nota, forse, ma egualmente ammirevole nella sua elegante leggerezza, del juvarriano Palazzo Martini di Cigola ( via Consolata 3 ) datato del 1716 d'anno stesso in cui l'abate messinese dava inizio ai cosi diversi suoi Quartieri milita- j ri di Porta Susina). E' que: sta un'opera certo «minore» ; di Filippo Juvarra, ma ben i concepita con l'alto portale I su cui s'apre, al piano no] bile, l'unico baicene, al cen; tro della più ornata serie dei ' quattro ordini di finestre e ' finestrelle ( queste al mezzani! no), in una ripartizione dello 1 spazio che idealmente si riI collega appunto, oltre la piazj za Savoia, con quella del capolavoro planteriano. In quella stessa zona il i Plantery ha lasciato numeroi se altre opere, tra le quali si potrà ricordare la dimora dei Capris di Cigliè (in via Santa Maria di Piazza 1 ) dal Cavallari definita « un palazzotto nobilmente concepito, ma già un po' freddamente neoclassicheggiante » con molte I semplificazioni rispetto alla più gustosa varietà di accen■ ti offerta da altri suoi edifici, j ma ammirevole per « una ; molto sciolta organizzazione ; degli spazi rappresentativi ». | Non dista di molto, trovan, dosi in via Barbaroux 43, la casa del marchese Signoris : di Buronzo, costruita nella vecchia isola di S. Monica I (ad un passo dalla Cappella della Misericordia): opera j che una lapide data del 1745 i (facendone quindi un esemì pio delle più tarde ideazioni I del Plantery che morì, set| tantaseienne, nel 1756), ma che ha molto perso a causa della devastazione subita da qualche ambiente dove un marcato gioco di luci ed ombre costituiva una suggestiva sottolineatura dell'astratta ornamentazione degli stucchi. Ma più che di edifici e di palazzi singoli, a Torino è giusto parlare di ambienti e di strade, proprio perché è più aderente allo spirito col quale si è operato, ad esempio nel « dirizzare » (con decreto del 1736) la vecchia via Dora Grossa (via Garibaldi), sino a porla tutta in asse rispetto al portone di Palazzo Madama, lungo un doppio tracciato sul quale si allineano case, palazzi, la gradinata della chiesa dei Santi Martiri e, sul lato opposto, 11 filo del sagrato di quella, anch'essa leggermente arretrata, di S. Dalmazzo. Un bell'esempio di unitarietà è offerto, proprio in via Garibaldi, dalla facciata con cui vi si prospetta il Palazzo Civico. A caratterizzarla è la fitta e marcata scansione di un ritmo compositivo che si misura nei due sensi: verti¬ calmente, scendendo dagli abbaini con la pronunciata lunghezza delle finestre, mentre in senso opposto si affida alle sottolineature di qualche elemento di decorazione muraria, ma soprattutto alle eleganti file dei balconcini in ferro, con un insieme che riecheggia l'ornato sviluppo ideato dall'Alfieri (1756) per la vicina piazza del Palazzo di Città. Ecco perché si dice che la bellezza di Torino è difficile da cogliere, quasi priva com'è di lati spettacolari, ed anzi tutta « segreta » nel suo realizzarsi con una serie di armoniosi rapporti e in quella sua « misura » di forme | e di colori. Una misura che può però riconoscersi anche ! in un dimesso angolo della ; città vecchia. Ad esempio, j dove s'incrociano via S. Dal! mazzo e via S. Agostino, con ! una naturale varietà di arI chitetture sacre e civili che ! bastano a rendere suggestivo i un ambiente nel quale pare 1 di poter respirare una super| stite atmosfera dell'origina[ rio impianto medioevale, 1 mantenutosi vivo anche a ì contatto con le riplasmazioi ni barocche sei e settecentesche, che più o meno prot fondamente hanno permeato I quasi ogni cellula del vec! chio centro urbano. Angelo Dragone

Persone citate: Cavallari, Filippo Juvarra, Quartieri, Savoia, Signoris

Luoghi citati: Cigliè, Torino