"FUGA,, NEGLI STUPEFACENTI

"FUGA,, NEGLI STUPEFACENTI "FUGA,, NEGLI STUPEFACENTI Droga come peste Le cronache sono piene di notizie gravi, molto gravi e penose, sulla piaga della droga in espansione. La nuova peste che miete vittime fra i giovani di tutte le classi sociali; una peste orrenda perché non naturale, come lo furono le grandi epidemie storiche, ma sociale e quindi prodotta da azioni intenzionali di certi gruppi di uomini. Sta di fatto che esiste un'attività produttiva e di distribuzione di una merce, la droga leggera e quella pesante, che produce alti profitti, rispettando rigorosamente le leggi del mercato che riguardano la produzione e la distribuzione in condizioni di monopolio. Sempre ragionando in base alle leggi dell'economia, se questa attività si sviluppa è necessario presupporre che vi sia una domanda che la sostiene, e che se vi è una domanda ciò significa pure che vi è un bisogno. E' vero che questo bisogno può essere artificialmente indotto mediante la pubblicità, come può esserlo qualsiasi bisogno che sta all'origine della domanda sul mercato delle merci, e Dio sa se la cosa non sia per la droga sventuratamente facile. Ma alla radice di ogni bisogno indotto ed esaltato dalla pubblicità e dai metodi promozionali di vendita, rigorosamente applicati del resto dalle organizzazioni internazionali della droga, vi deve comunque essere originariamente un bisogno reale, anche se non naturale ma frutto di determinate condizioni storico-sociali. E' su questo bisogno che l'antropologo culturale può dire qualcosa. Da tempo immemorabile l'uomo ha fatto uso di allucinogeni e di sostanze stupefacenti, in precisi contesti culturali e con formalità socialmente accettate e ritualmente codificate. La funzione principale di queste pratiche consiste nel produrre stati mentali che favoriscono esperienze psichiche di evasione dalla realtà, attraverso la quale i singoli e l'intero gruppo sociale scaricano le tensioni accumulate nella dura vita quotidiana. Questa funzione fondamentale si plasma, nelle culture più raffinate, come in quelle orientali, e in quella indiana in modo particolare, e si trasfigura mediante un'interpretazione religiosa e mistica delle esperienze ottenute per questa via, e che si possono d'altronde raggiungere anche mediante pratiche ascetiche pure, nelle quali è assente ogni traccia di droga, come nell'ascesi mistica dello Yoga. Ma la funzione di base non muta: essa consiste nella soddisfazione del bisogno di evadere dal presente, verso una dimensione di totale gratificazione, mentre le pratiche che portano al «viaggio» restano quasi sempre nelle società tradizionali sotto uno stretto controllo rituale e cerimoniale, che ne impediscono la trasformazione in malattia sociale. E se questo non accade, come nella Cina prerivoluzionaria, ciò significa che si tratta di una società in disfacimento. Il bisogno di droga, in questa prospettiva, è quindi sinonimo di bisogno di evasione dalla realtà della vita quotidiana. Di conseguenza ci si deve chiedere ora perché questo bisogno sia sentito così fortemente dai giovani in una società in cui le condizioni di vita non sono state mai così favorevoli all'uomo da un punto di vista materiale ed economico. La risposta più consueta è che ciò dipende dal fatto che la nostra società industriale è particolarmente frustrante perché è repressiva. Niente di più inesatto e superficiale, e su questo avremo modo di ritornare in altra occasione. Ora ci conviene invece di fare un discorso meno generale e di riferirci ad alcune indicazioni concrete. Gli studi americani sul fenomeno della droga, che sono di gran lunga i più avanzati, per ovvi e tristi motivi che sono purtroppo diventati ora anche i nostri, ci danno alcuni utili suggerimenti. Innanzitutto si rileva che l'uso della droga leggera e pesante è più diffuso negli Usa fra gli studenti, e in particolare fra i più intellettualmente dotati di essi, e fra i giovani disadattati degli slums metropolitani, mentre è praticamente assente nelle zone rurali e lontane dai centri urbani. Anche tenendo conto degli ovvi motivi commerciali di questo fatto (l'accesso degli spacciatori alle scuole e agli ambienti frequentati dai giovani deviami in città è assai più facile che non alle zone rurali decentrate e lontane dalla «via della droga»), questo fenomeno pone un quesito. Che cosa hanno in comune i giovani studenti iperdotati e i giovani disadattati, che possa spiegare la loro maggiore propensione alla droga? La risposta dell'antropologo è que¬ sta: entrambi questi gruppi si trovano particolarmente impreparati dalla loro formazione culturale personale a fare fronte ai problemi dell'esistenza e sono spinti quindi a ricorrere ai più pericolosi strumenti di evasione. A questo proposito però bisogna chiarire un punto. Quando noi antropologi parliamo di « cultura » intendiamo con questo termine un insieme di informazioni di base, socialmente trasmesse attraverso i canali della famiglia, della scuola e dei gruppi di età, che danno una struttura alla personalità degli individui umani, geneticamente dotati solo di pochissimi rudimentali istinti, la quale permette loro di orientarsi nella vita, predisponendoli a risolvere nel modo migliore quei complessi problemi che sono caratteristici della loro società storica. Mi sia scusata questa formulazione che ha un cerio tono didascalico, ma si tratta di un concetto chiave, senza il quale non si comprende nulla di ciò che attiene ai fenomeni della coscienza sociale e delle sue dinamiche. Chiusa questa breve parentesi, ritorniamo ai giovani studenti e ai giovani devianti degli slums americani. Essi hanno in comune una carenza di strumenti concettuali adatti a far loro «comprendere» la realtà che li circonda; ma questo per motivi diversi, se non opposti. I primi avvertono la inadeguatezza dei modelli culturali tradizionali, perché il loro livello d'informazione e di intelligenza li rende più sensibili alle nuove contraddizioni della società in cui vivono, senza tuttavia che questa partecipazione trovi ancora la via verso una chiara e realizzabile prospettiva di soluzione, cos) che essa si risolve in uno stato diffuso di ansietà e di disorientamento. I secondi invece vengono a trovarsi nelle medesime condizioni perché hanno visto praticamente disintegrarsi il loro universo culturale tradizionale, spesso a sfondo etnico, dalle profonde trasformazioni sociali e si trovano in una situazione di «deculturazione» altamente ansiogena, che è simile a quella dei popoli del Terzo Mondo le cui strutture tradizionali si sono disintegrate sotto l'impatto dell'economia di mercato. Le origini del fenomeno sono diverse, ma gli esiti sono gli stessi: il tentativo di fuga dalla realtà sofferta come negazione. Le «anime belle» parlano di fronte a questi fenomeni di «crisi dei valori», indicando con questo termine i valori tradizionali, proprio quelli che i giovani esperiscono come inadeguati e fonte della loro ansietà, e suggeriscono come terapia una somministrazione ab¬ bondante di questi buoni vecchi valori, di cui hanno una concezione vitaminica. Ma i valori non sono vitamine. Pei un antropologo essi sono solo dei modelli di comportamento storicamente privilegiati e quindi socialmente sanzionati, ai quali è «bene» rifarsi nelle proprie scelte nell'ambito di una certa società storica, che ha concreti e determinati problemi da risolvere e che si orienta verso determinati fini. Né più né meno, ma non è poco. Nelle fasi di transizione tuttavia non sempre i problemi si pongono in termini chiari e definiti, per cui oggi è necessario sopra ogni cosa cercare di comprendere, con la fantasia e non solo con l'erudizione, quali siano questi nuovi problemi sociali, ancora nebulosi e incerti, nonostante la massa di teorie che circola nel mondo a questo proposito, ma non si tratta di un compito facile Sui muri del campus di Berkeley, come scrive Dominique Desanti su Le Monde del 13 luglio, si legge una scritta: «Gesù è la risposta!». Al di sotto qualcuno ha aggiunto: «Ma qual è la domanda?». Il punto è forse proprio questo. Carlo Tullio-Altan

Persone citate: Carlo Tullio-altan, Dominique Desanti, Gesù

Luoghi citati: Berkeley, Cina, Usa