Il potere in Italia di A. Galante Garrone

Il potere in Italia Il potere in Italia Si è parlato e si parla (e ha dato anche il titolo a un recente, fortunato libro di Garzanti) del «caso italiano», di quel che rende il nostro Paese così diverso dagli altri — e non diciamo migliore —, pur nell'ambito di una comune civiltà occidentale. Ma non si considera abbastanza che i più scottanti problemi e le singolarità più appariscenti dell'Italia d'oggi affondano le radici in un passato anche remoto. E' quel che risulta dall'ultimo libro di Giuseppe Galasso, Potere e istituzioni in Italia. Dittiti caduta dell'Impero romano ad oggi (ed. Einaudi): una robusta opera storica che mette a frutto altre discipline, la sociologia, il diritto, l'economia, le scienze politiche. Ne appare il perpetuarsi del potere, pur nel variare delle gerarchie sociali e delle istituzioni, la caparbia permanenza del vecchio anche sotto la pressione del nuovo, ieri come oggi. Di questo libro si è discorso assai bene, qualche settimana fa, in una delle migliori rubriche televisive, Settimo giorno. Il filo rosso più tenace che percorre tutta la nostra storia è quel che Galasso chiama la «logica del particolarismo». Il potere si frantuma e si disgrega in tanti centri minori. Già lo si scorge nell'Italia longobarda, e nel diffondersi del feudalesimo dopo la conquista franca. Questo frammentarsi dell'autorità, questa spinta particolaristica, che dà al nostro Paese una fisionomia così precocemente diversa da quella degli altri, appare quasi come una vocazione della nostra società, un segno del suo (non invidiabile) destino. Tale particolarismo ha avuto il suo splendido momento creativo: l'impetuosa fioritura dei Comuni, da cui promana tutto un rigoglio di civiltà. Ma questa molteplicità di vitali nuclei politici è anche, a partire dal Duecento, l'ostacolo decisivo al costituirsi di un potere egemone e unificante nell'Italia centro-settentrionale, Giustamente Galasso rifiuta la celebre tesi machiavelliana del papato come principale ostacolo all'unità; ben più determinante è stata la potente esplosione particolaristica dell'Italia comunale. Più gravi ancora sono gli aspetti degenerativi di questo processo storico. La « logica del particolarismo » sfocia fatalmente nel «blocco oligarchico» dei potentati locali, chiusi e arroccati nella conservazione della loro autorità, privi di forza espansiva e coesiva, e costretti dalla loro stessa debolezza alla gelosa difesa dei propri privilegi, soprattutto fondiari. Svanisce, nei piccoli centri statali, il dinamismo dei secoli precedenti; gli organi politici si trasformano in organi puramente amministrativi; i governi italiani si fanno conservatori. Il problema essenziale, cioè, diventa la conservazione del potere, sotto il segno di un gretto immobilismo. Si determina così una crescente estraneità del Paese rispetto all'apparato statale. La politica è abbandonata ai governanti; si affievolisce ogni tensione morale, ogni volontà di partecipazione. Si insinua nei governati la desolata rassegnazione espressa dall'adagio popolare: Franzo o Spagna pur che se magna. Questo scetticismo rispecchia l'indifferenza del popolo, il recidersi di ogni legame fra il potere e le forze economiche e sociali, del resto isterilite e compresse. Il conservatorismo più ottuso è nella logica delle cose. Giustamente Galasso vede in tutto questo la conferma di un principio di sociologia politica: la vischiosità, e la tendenza all'immobilismo degli ordinamenti, quando manchino adeguate sollecitazioni da parte della base sociale. Di qui, come ha detto benissimo Giorgio Spini, l'imputridirsi delle dinastie italiane e delle loro corti « nella futile routine di un'esistenza inutile », il loro « stanco tramonto ». * ★ E poi, c'è l'altra Italia, il problema del Mezzogiorno, oggi ancora irrisolto, che ha la sua prima radice nel diverso sviluppo dell'Italia meridionale e insulare, a cominciare dalla sua feudalizzazione. E all'interno di questo problema, quello particolare di Napoli, « enorme testa su un esile corpo »: tipica degenerazione metropolitana provocata da un accentramento assolutistico « non sorretto da un parallelo sviluppo delle strutture sociali ed economiche del Paese ». E anche questo ci fa capile perché l'impronta dei riformatori illuministi del Settecento (e non a caso alcuni Ira i più grandi erano meridionali) tosse quasi del tutto svanita nell'Ottocento: fatta labile e superficiale dall'aridità e durezza del terreno su cui era stata impressa con tanta geniale fatica. Era (ed è sempre) la vecchia Italia a condizionare gli sviluppi storici. Su questo dato della realtà poggia anche la distinzione fra moderatismo e liberalismo nell'Italia del Risorgimento. Una distinzione, a nostro avviso, fondamentale, contro l'identificazione fra i due termini troppo a lungo invalsa nella storiografia aulica. Il moderatismo si lega alle forze tradizionali, spesso anche retrive. Il liberalismo, quello più autentico e dinamico, riesce con Cavour a catturarlo, ma poi finirà per esserne soffocato. E sarà, ancora una volta, la rivincita della vecchia Italia. Anche quella che Galasso chiama, con ironia che sa di amaro, la « democrazia latina » — la quale ha avuto il suo modello nella Francia della Terza Repubblica, ma da noi più che altrove tende ancor oggi a perpetuarsi — porta i segni del passato, col sopravvivere delle strutture del vecchio Stato assolutistico, e la forza indistruttibile degli interessi particolaristici, del clientelismo, dei « notabili ». ★ ★ Tutto questo, e altro ancora, vede Galasso nella lunga storia d'Italia. E' chiaro che qualche illustre esempio lo ha ispirato: Carlo Cattaneo, e anche Francesco De Sanctis, come egli stesso ha confessato alla tv. Ma soprattutto affiora dalle sue pagine, prepotente anche se velato e dominato, l'assillo tutto politico dell'Italia d'oggi. Lo si vede perfino dallo sfuggirgli (non sappiamo se involontario, o per qualche malizioso intento) di qualche espressione tolta d: peso dall'odierno linguaggio politico: come, a proposito del moderatismo ottocentesco, il « progresso senza avventure », o, nei confronti del liberalismo di una volta, la sua vocazione « centrista », e la sua preferenza « per i contenuti anziché per gli schieramenti »! Dalle sue pagine emergono più chiari, nelle loro scaturigini storiche, i mali realissimi che affliggono il nostro Paese, e ne fanno un unicum: la conservazione del potere per il potere, e, a questo scopo, i sapienti equilibri oligarchici, la «logica del particolarismo» estesa anche alle grandi organizzazioni di massa, il clientelismo, la « lottizzazione » dei centri di potere, il fenomeno della cooptazione in seno alla classe politica, i suoi tratti gerontocratici, il suo pervicace immobilismo, il suo distacco dalla vita reale del Paese, il debolissimo senso dello Stato come cosa di tutti, res publica. Non sono mali imputabili soltanto a uomini, partiti, governi (anche se il modo di « far politica » e di governare li ha certo aggravati): vengono da lontano, da molto lontano. Il che non può valere come scusante per chi oggi detiene ed esercita il potere; né d'altra parte indurre a un rassegnato scetticismo. Ma, se mai, può e deve essere stimolo a un maggiore impegno, politico e civile, dei cittadini. Forse, il voto del 15 giugno può essere interpretato come il primo risveglio da un lungo sonno. A. Galante Garrone