Ristudiando il fascismo di Luigi Firpo

Ristudiando il fascismo La polemica sul saggio di Renzo De Felice Ristudiando il fascismo Renzo De Felice, « Intervista sul fascismo », a cura di Michael A. Ledeen, Ed. Laterza, pag. 125, lire 2000. Sull'onda del successo dell'/nlervista politico-filosofica rilasciato da Lucio Collctti alla New Loft Review (scottante periplo delle tensioni dottrinali in seno al marxismo), l'editore Laterza propone ora questa Intervista sul fascismo. Protagonista Renzo De Felice, storico contemporaneo dell'Università di Róma e autore fra l'altro di una monumentale biografìa di Mussolini: quattro tomi già pubblicati, vent'anni di lavoro, una dimensione prevista di cinque o scimila pagine, un'immane fatica di scavo archivistico, di raccolta di testimonianze, di ricostruzione. ★ * Nell'immaginato colloquio con M. A. Lcdcen, giovane studioso americano degli stessi problemi. De Felice coglie l'occasione per mettere a fuoco la metodologia generale del proprio lavoro, quel complesso di ipotesi-guida che ha potuto affinare nel corso dell'impresa e ne costituiscono ormai la struttura portante. E lo fa con deliberato intento provocatorio, rivendicando la priorità del documento sull'ideologia, l'istanza di avviare un discorso sempre più storico e sempre meno politico L'interlocutore effettivo perciò non è il bene informato Ledeen, ma la compatta e un po' monotona storiografia marxista, concorde nel ravvisare nel fascismo italiano una reazione di classe, un colpo di mano di scherani che finirono col prendere la mano al padrone capitalista e trovarono rispondenza sul piano internazionale in movimenti analoghi, accomunati nella reazione contro la rivoluzione sovietica. Secondo De Felice si tratta di un classismo rozzo ed elementare, viziato dall'astrattezza e dal conformismo, che ha finito per monopolizzare la nostra storiografia, scacciando altre tesi pur degne di riflessione, quali la crociana, del fascismo come « malattia morale », o quella radicale, che lo aveva considerato una rivolta di malcontenti e di velleitari. Subito accusato di voler presentare il regime in una luce migliore, addirittura di « tentare una riabilitazione politica del fascismo » (Lelio Basso) di prestarsi ad una squalificante « operazione politica » (Nicola Tranfaglia), l'autore sostiene invece che le tirate ideologiche son buone per i comizi di piazza e che il solo modo di interpretare il fascismo consiste nello sviscerarlo a fondo, scientificamente; nel farne, con lucida imparzialità, la storia. Il primo spunto innovatore che De Felice intende proporre sta nella distinzione, in seno al fascismo, tra « movimento » e « regime ». Il movimento rivela un suo dinamismo vitalistico, sa cogliere esigenze e fermenti della generazione uscita dal massacro della prima guerra mondiale, esprime talune velleità rivoluzionarie, possiede una sua elementare cultura e un suo atteggiamento psicologico. Al passato guarda con la consapevolezza di una frattura definitiva. Invece il regime significherà continuità, assestamento, espediente politico contingente, sovrastruttura di potere personale carismatico. Di contro al movimento, che rappresenta l'« idea », il regime è la realtà, il compromesso con le difficoltà oggettive, l'insieme di scadimenti che ogni attuazione comporta. In realtà, questo accento posto sul movimento può essere significante, semmai, solo per gli anni più remoti, quando la insofferenza dei reduci per il ritorno al grigiore della vita civile, il dannunzianesimo esaltato dall'impresa fiumana, il nazionalismo monarchico e oratorio, l'adesione di tecnici egregi, ansiosi di ricostruire il Paese stremato in un clima di ordine e di tregua sociale, la paura della sinistra al potere, alimentata dagli scioperi e dall'occupazione delle fabbriche, composero un miscuglio eterogeneo ma potenzialmente esplosivo. Qui De Felice va oltre, e tenta di attribuire a questa congerie un carattere classista: non si tratterebbe però d'una pletora di piccoli borghesi declassati, di un proletariato dai colletti bianchi, bensì di un celo medio « emergente », di una borghesia in ascesa, aspirante a maggior partecipazione e influenza nella vita politica. Almeno sino all'epurazione degli « intransigenti » della prima ora (e qualcuno ne riapparve, senile fantasma, ai tempi di Salò), condotta sotto la segreteria di Augusto Turati fra il '26 e il '30, il movimento avrebbe conservato questo suo carattere classista. L'affermazione resta per ora gratuita e richiederebbe una documentazione esauriente. Già non si capisce quale fosse nel '20, nel '22, un ceto medio italiano in ascesa. Letto in questa chiave, il fascismo delle origini sarebbe il precorrimcnto di una società terziaria e tecnocratica che rifiuta il dualismo elementare salariato-padrone e, sul piano politico, si pone come mediatrice e arbitro fra il liberalismo borghese e il socialismo proletario. Furono certo avanzate, in quei primi anni, confuse contestazioni dell'assetto sociale e velleità corporative, ridicolizzate poi dal regime con la parodistica attuazione, ma nessuna coscienza di rappresentare un ceto peculiare animò i primi fasci, semmai quella di porsi come nuova forza e di volere appunto alla forza far ricorso. Nel definire « rivoluzionario » il movimento. De Felice sottolinea che il termine non va necessariamente collegato con u. valore di segno positivo. Quello che caratterizzò il fascismo, di contro ai diversi modelli totalitari, fu la ricerca di una mobilitazione e partecipazione delle masse (limitata, vorrei aggiungere, al piano fantastico ed emotivo): fu l'ottimismo irrazionalistico, il convincimento di dover attuare la rivoluzione non incidendo direttamente sulle istituzioni, ma foggiando un « uomo nuovo » att-averso l'educazione (altra parola da intendere senza implicita connotazione positiva), condizionando un militante ligio, un mistico addirittura, che trovasse nel fascismo il proprio credo. La povertà squallida dei contenuti, l'inadeguatezza dei mezzi (gli insegnanti erano rimasti in gran parte liberali e crociani, oppure cattolici) non cancellano questa peculiarità, che — piaccia o non piaccia, e sia pure in modo distorto — riconduce questo progetto, oscurantista in realtà, a radici culturali illuministiche. Non a caso il regime rivendicò tenacemente il monopolio nella formazione della gioventù: lo stesso parziale cedimento dei Patti Lateranensi, l'istruzione religiosa nelle scuole, presupponevano infatti una religione ormai ridotta a instrumentum regni, le sfilate di preti decorati a passo romano. * * Un altro quesito che la storiografia corrente volentieri elude è quello del consenso: l'appariscente anche se opportunistica fascistizzazione dell'Italia, le adunate oceaniche, i sedentari con gli stivali, i bambini col moschetto, il linguaggio rituale, il culto feticistico del Duce. Lelio Basso nega che ci sia stata « una partecipazione attiva, cosciente, autonoma delle masse » e ne cerca la riprova nella fiacca condotta in guerra; in realtà la guerra non la perdettero i poveri soldati, più o meno eguali in ogni tempo e Paese, ma capi inetti e politici deliranti, e la partecipazione al regime, in forma di passivo consenso, ma con punte di orgoglio compiaciuto e di ingenui entusiasmi, è un fatto innegabile. Scaltra, malgrado le goffaggini di alcuni insipienti, fu la politica di massa (Opera Balilla, Colonie marine e montane, Gioventù del Littorio, Dopolavoro, treni popolari) e tale fu il maneggio dei mezzi di comunicazione (Istituto Luce, Eiar) e dello sport come spettacolo. Il resto lo faceva la polizia. Bonaria, tiepida ma diffusa, fu l'adesione al fascismo finché esso significò treni in orario, crociere aeree prestigiose, sicurezza nella povertà, gratificazioni retoriche come surrogato del reale progresso. De Felice ne sottolinea con finezza alcune motivazioni che avrebbero mandato in bestia Mussolini: la conquista dell'impero sentita come sbocco per l'emigrazione contadina, il compromesso di Monaco accolto dall'Italia sedicente « guerriera » con un sospiro di sollievo che fece lievitare monti e valli... Vero è che tutta questa storiografia soffre di una lacuna grave, che è quella dell'indagine — larga, documentata, spregiudicala — che è tempo di condurre sull'antifascismo. Nessuno ne vuol disconoscere i meriti grandi, i sacrifici, l'eroismo, le generose vittime: sta di fatto che in Italia, prima degli Anni 40, esso si caratterizzò per un'assenza quasi totale; le sue cellule cospirative, i nu¬ clei clandestini di resistenza furono troppo esigui e perseguitati per poter olfrire alternative embrionali, anche solo per dare un ammonimento. L'antico conformismo fece il resto. Parlo, ben inteso, di militante opposizione politica, perche quella culturale fu ben viva, ma sterile sul piano dell'azione, dissimulata per ovvia prudenza, inaccessibile alle masse. ★ * Questi ed altri spunti, discutibili, talora paradossali, offre il discorso di De Felice, e discussione esso mi pare che meriti, anche contrasto duro, ma non anatema. Chi si domanda « se e produttivo discutere, rimettendo ogni volta in dubbio punti fermi, che ricerche originali, documenti statistici, analisi interpretative hanno acquisito già da molto tempo » 6 meglio adat- lo a insegnare teologia piutto-sto che storia. Discutere è produttivo, sempre e comunque. « Il fascismo ha fatto infiniti danni », scrive De Felice, « ma uno dei danni più grossi e stato quello di lasciare in eredità una mentalità fascista ai non fascisti, agli antifascisti, alle generazioni successive... una mentalità di intolleranza, di sopraffazione ideologica, di squalificazionc dell'avversario per distruggerlo ». E' probabile che su più di un punto De Felice abbia torto, ma su questo — purtroppo — ha ragione. Luigi Firpo

Luoghi citati: Italia, Monaco, Salò