RITRATTI AMERICANI: REAGAN di Francesco Fornari

RITRATTI AMERICANI: REAGAN L'ISOLA NON E' GUARITA DALLE FERITE DELLA GUERRA La fragile pace di Cipro Il ritorno dell'arcivescovo Makarios aveva acceso nuove speranze nei 200 mila profughi greco-ciprioti, ma la creazione di due Stati, voluta dai turchi, sembra inevitabile - Mentre diminuisce la sua popolarità, si fa sempre più acuta la tensione (Dal nostro inviato speciale) Nicosia, luglio. Ritto su una scala un operaio cambia l'insegna all'angolo della piazza Metaxas, ribattezzata per l'occasione Eleftheria, che in greco significa libertà. Sullo sfondo, oltre i tetti delle case del vecchio quartiere musulmano, dall'alto di un minareto sventola la bandiera con la mezzaluna. Come una sfida, dalle finestre di una delle case lungo la «linea verde» pendono stinte e logore bandiere greche; sui muri dell'edificio sbrecciati da centinaia di proiettili campeggiano scritte inneggianti all'enosis ed alla libertà. Un giovane soldato della guardia nazionale, accovacciato al riparo di una catasta di sacchetti di sabbia, sfoglia distrattamente una rivista. Di fronte, a meno di venti metri, dietro ad una protezione analoga ci sono i soldati turchi di guardia: da una feritoia spunta minacciosa la carina traforata di una grossa mitragliatrice. Nicosia commemora i giorni della tristezza e dell'odio. Un anno fa i miliziani di Nicos Sampson avevano rovesciato il governo dell'arcivescovo Makarios. Mentre i rivoltosi attaccavano il palazzo presidenziale con cannoni e mortai, il presidente deposto riusciva a mettersi in salvo fuggendo attraverso un passaggio segreto. Svegliati all'alba dalle esplosioni, gli abitanti della capitale avevano assistito quasi indifferenti agli avvenimenti di quella drammatica giornata mentre la radio occupata dai rivoltosi diffondeva i primi comunicati annunciando che l'epoca del terrore e della dittatura era finita per sempre. Gli insorti parlano di « Repubblica ellenica » e i guerriglieri di Grivas, orfani da sei mesi del loro leggendario capo, si illudono di veder coronato il loro sogno, la mitica enosis, il ritorno alla patria greca. L'invasione turca Non tutti sono d'accordo, non tutti sognano Tenosis. Non ne vogliono sentir parlare i ciprioti di lingua turca, che sono più di centomila, all'incirca il venti per cento della popolazione. Sono trascorsi soltanto cinque giorni dal «golpe» quando i primi «commandos» venuti da Ankara sbarcano sulla spiaggia di Kyrenia ed i paracadutisti vengono lanciati sull'aeroporto di Nicosia. E' l'inìzio dell'invasione: per il governo turco si tratta di un'operazione di polizia « per garantire l'incolumità della minoranza turco-cipriota » messa in pericolo dopo il colpo di Stato. In realtà è il pretesto tanto atteso per occupare militarmente una grossa porzione dell'isola Ila più ricca) e crearvi uno Stato alle dirette dipendenze del governo di Ankara. Il 22 luglio Nicos Sampson, il nuovo presidente, si dimette: ha governato per sette giorni cercando invano di dare a se slesso ed ai suoi collaboratori una credibilità almeno apparente. Gli succede Glafcos Clerides, già presidente dell'assemblea nazionale cipriota. Lo attende un compito disperato: le truppe di Ankara avanzano minacciose, dalle zone occupate fuggono migliaia di greco-ciprioti terrorizzati, la guardia nazionale è in rotta, la Grecia, alle prese con i suoi gravi problemi interni, non ha i mezzi (e forse neppure la volontà politicai per accorrere in aiuto. Il sogno delZ'enosis si infrange sulle baionette dei soldati turchi. Cipro, l'isola dei ghetti e del filo spinato, il Paese in cui i cittadini non sono liberi di spostarsi a loro piacimento da un punto all'altro, si trasforma in un insanguinato campo di battaglia. Travagliata da vent'anni di guerriglia, l'isola conosce i giorni tristi ed amari dell'invasione. Per la prima volta dal 1959, anno dell'indipendenza, un esercito straniero in armi percorre le strade di Cipro, aprendosi la via con i carri armati, piegando la disperata resistenza dei greco-ciprioti con i razzi scagliati dagli aerei che effettuano indisturbati le loro missioni di guerra. Mentre i caschi blu dì stanza sull'isola si logorano nel vano tentativo di evitare gli scontri incuneandosi come un cuscinetto fra gli opposti eserciti, le Cancellerie di mezzo mondo si affannano nella ricerca di una soluzione che metta fine al conflitto. Il primo tentativo risale all'agosto dell'anno scorso: mentre a Cipro si combatteva e si moriva, i ministri ! degli Esteri di Grecia e Turl chia, con la mediazione del | loro collega inglese, si inI contrailo a Ginevra. Alle I strette di mano, ripetute più volte per soddisfare le esigenze dei fotografi, non segue nulla di concreto. Pochi giorni dopo l'esercito turco scatena la terza offensiva: si inizia l'S agosto con furiosi combattimenti nel cuore di Nicosia e si conclude dopo una decina i di giorni con l'occupazione della città di Famagosta e Morphou. La serpeggiante « linea verde» si stende cosi da un capo all'altro dell'isola: tutta la parte settentrionale, più del 40 per cento dell'intero territorio, è occupata dai turchi. Per oltre 200 mila greco-ciprio- ! ti si apre la via dell'esilio: \ costretti ad abbandonare le \ loro case vengono accolti nei campi di fortuna. \ Ripresi e interrotti più I volte, i colloqui fra i rap- i presentanti delle due comu- j nità, Glafcos Clerides e Rauf \ Denktash, sembrano destinati al fallimento. A dicembre il ritorno dell'etnarca Makarios accende nuove speranze negli esuli. L'arcivescovo arriva agitando il ramo d'ulivo, ma la sua presenza riesce ugualmente poco gradita ai turco-ciprioti. Sema mezzi termini Denktash afferma che « sua beatitudine » non sarà mai accettato come interlocutore. Da parte sua. Makarios pone subito delle condizioni ben precise prima di avviare delle trattative: ritiro delle truppe turche dall'isola (come previsto dalle risoluzioni dell'Orni i e l'immediato ritorno dei 200 mila profughi nelle loro case e proprietà. Quando ciò sarà fatto, l'etnarca si dice pronto a « garantire una maggiore rappresentanza alla comunità turco-cipriota ». La tesi di Denktash /creare una Repubblica federale con due Stati etnicamente omogenei ed autonomi) viene giudicata assurda e respinta. I turchi non rispondono neppure: Ankara non ha alcuna intenzione di abbandonare l'isola, Denktash non ha fretta, sa che il tempo lavora per lui. Il primo ministro turco Suleiman Demirel ha dichiarato ai giornalisti alcune settimane fa: « Bisogna che i greci si rendano conto della realtà e non s: mostrino esigenti. Non c'ò nulla da trattare: è una situazione di fatto e devono accettarla ». Per rafforzare questa situazione di fatto, il nuovo governo turco-cipriota ha accelerato il programma di espulsione dei greco-ciprioti chi sono rimasti nel settore occupato dai turchi. Denktash sostiene che l'esodo è volontario, ma viene smentiio dai racconti fatti dai profughi che continuano ad arrivare ogni giorno nei campi. A fare le spese del braccio di ferro fra i due governi sono, come sempre, gli umili. Ai greco-ciprioti cacciati dai loro villaggi, si contrappongono i circa diecimila turcociprioti rimasti intrappolati nelle « enclaves » nella zona meridionale dell'isola ed ai quali Makarios rifiuta di concedere l'autorizzazione a partire per ricongiungersi con i loro compatrioti nel Nord. Un anno dopo A un anno dall'inìzio dell'ostilità nessun progresso concreto è stato fatto e l'avvenire politico e costituzionale dell'isola appare quanto mai oscuro. La popolarità di Makarios, accolto come il salvatore della patria a dicembre, ha subito un calo pauroso in questi ultimi mesi. I suoi avversari di un tempo, dopo un periodo di prudente silenzio, ricominciano a fare sentire le loro voci. Gli attacchi contro l'etnarca si moltiplicano: più traditi di tutti si sentono i 200 mila profughi che avevano creduto alle promesse dell'arcivescovo e si erano illusi di poter tornare nelle loro case entro l'inverno. Il 28 aprile, a Vienna, dopo una serie di contatti dedicati in prevalenza a pressanti questioni umanitarie, Clerides e Denktash hanno iniziato un vero e proprio negoziato politico. A questo incontro ne è seguito un se- condo nei primi giorni di giugno, un terzo è previsto alla fine di luglio. Sinora si è concluso ben poco: è stato raggiunto qualche accordo sulla ricerca dei dispersi, sono stati creati dei gruppi di esperti, in linea di prìn- cipio è stata trovata un'in- tesa per la riapertura dell'aeroporto internazionale di Nicosia, tuttora spaccato in due e presidiato dai soldati dell'Onu. Tuttavia, sotto l'incalzare degli avvenimenti, sembra che i greco-ciprioti siano diventati meno intransigenti. Hanno accettato di discutere il principio federativo proposto da Denktash. si sono rassegnati a qualche forma di spartizione. Su un punto, però, le trattative rischiano di naufragare ancora una volta. Il governo greco-cipriota, infatti, pretende che i turchi liberino tutto il settore di Famagosta e consentano il ritorno dei profughi nelle loro case. Le armi al piede In questi giorni di « lutto nazionale », nell'anniversario del colpo di Stato e della conseguente occupazione turca, la tensione nel settore greco di Nicosia si è fatta più acuta. I turchi hanno rinforzato la guarnigione: nuovi alti pennoni con la bandiera della mezzaluna sono stati rizzati un po' dappertutto lungo la «linea verde». «Una situazione molto pericolosa: siamo seduti su una polveriera che può scoppiare da un momento all'altro », mi dice monsignor John Foradaris, vicario generale dei Maroniti nell'isola. La sua abitazione e la chiesa si trovano proprio lungo la «linea verde». Dalle finestre, protette con sacchetti di sabbia, mi indica gli avamposti turchi. Il cimitero cattolico separa i due settori. L'erba cresce incolta fra le tombe abbandonate. « Da un anno il cimitero è chiuso, dice monsignor Foradaris, i turchi hanno rifiutato sinora ogni permesso. Gli abitanti di Nicosia sono costretti a seppellire i loro morti nei cimiteri di Larnaka e di Limassol. Quasi ogni giorno arrivano dei greco-ciprioti a casa mia. Salgono al primo piano e pregano per i loro cari guardando le tombe attraverso le fessure delle finestre ». Il solco che divide le due comunità si approfondisce ogni giorno di più. Francesco Fornari