I "capi,, in fabbrica di Clemente Granata

I "capi,, in fabbrica Inchiesta all'interno delle aziende I "capi,, in fabbrica Nessun gruppo è in crisi come i responsabili di squadre e reparti - Dopo anni d'intimidazioni, si sentono scavalcati da dirigenti e sindacalisti, minacciati dagli "ultra" Dicono: « Ci chiamano la mano oscura del padrone. La direzione ci ignora, ha dato più fiducia al sindacato che a noi, preferisce dialogare con la controparte. E anche il sindacato ci scavalca. Gli estremisti incendiano le nostre macchine, ci bastonano, ci sparano ». Dicono: « Ci sentiamo umiliati ». E' questo il lamento di un gruppo di capireparto e capisquadra della Fiat che incontriamo negli stabilimenti iti Mirafiori e di Rivolta. Ed è un lamento che pur con accenti e sfumature diversi proviene da tutti i dodicimila « capi intermedi » della grande azienda. E' una protesta che investe anche la maggior parte dei grossi complessi industriali, mentre, come ci dice l'ing. Benadì — presidente del gruppo «giovani imprenditori» — nelle piccole e medie aziende, specie se lontane dalla metropoli, il fenomeno appare a volte meno percettibile. E' un processo a una condizione umana obiettivamente difficile, lacerata da contraddizioni, tesa alla disperata ricerca di una fisionomia, al recupero di un ruolo. « Ma cosa siamo diventati, chi siamo noi? ». E c'è un miscuglio di nostalgia e rabbia nella domanda. Partiamo da questo « processo » per un breve viaggio dentro la fabbrica. Di solito, rimanendo all'esterno dell'azienda, grande o piccola che sia, possiamo avere immagini scontate, ritratti stereotipati. 0 avvertiamo soltanto i riflessi (talora patologici) di certe situazioni, echi peraltro un po' attutiti perché le imprese da una parte, i sindacati dall'altra, per motivi diversi sono portati a smussare nei comunicati ufficiali gli aspetti più spigolosi di alcune vicende. Gli 800mila Cerchiamo di avere un'immagine più ravvicinata. Ed ecco che, fatto un passo oltre la soglia, il quadro si ravviva, ci troviamo di fronte a un travaglio talora profondo che è il sintomo, crediamo, di una crisi di sviluppo, dì adattamento della struttura scientificamente gerarchica dell'impresa quale era riscontrabile nella realtà sino a pochi anni or sono, alle esigenze di una moderna democrazia industriale. La crisi di sviluppo, dovuta anche alla forte spinta del sindacato, investe parecchie figure: il « manager » che rivendica un maggior potere discrezionale, il riconoscimento di tino « status » non fondato soltanto « sul rapporto fiduciario, ma sulla competenza, sulla capacità e iniziativa creatrice », come ci dice il capo del personale di un'azienda pubblica; il « colletto bianco » che « nelle imprese a forte partecipazione impiegatizia si sta fortemente sindacalizzando con conseguenze di larga portata entro breve termine » e 1 « capi intermedi », come quelli che incontriamo a Mirafiori e a Rivolta. In Italia ce ne sono circa ottocentomila. Chi sono costoro? I testi specializzati in materia dicono che « il capo presiede allo svolgimento del processo produttivo di una officina, reparto o squadra di cui è il responsabile », cioè prende gli ordini dai vertici della gerarchia aziendale e li trasmette alla base con compiti soprattutto di controllo e di verifica. Un elemento quindi molto importante dell'organizzazione aziendale, « talmente importante — ci dice il dott. Aldo Baro, vicedirettore dell'Unione industriale di Torino — che su di lui ora si scaricano tutte le tensioni dall'alto e dal basso ». E' una posizione, che dopo il rafforzamento del sindacato, si è fatta delicatissima e il « capo » ne avverte giorno per giorno i contraccolpi: incertezze psicologiche, dialoghi a volte difficili con direzione, rappresentanti sindacali aziendali e delegati di reparto, contestazioni, scioperi improvvisi. Si crea così un clima di tensione che favorisce indirettamente l'esplodere di violenze sino alle sparatorie ad opera di gruppi non ben identificati. I casi del caporeparto Gamba bastonato davanti a casa dieci mesi fa e ancora all'ospedale, e quello più recente del capo officina Fossat ferito a colpi di pistola davanti ai cancelli della Fiat di Rivolta da esponenti del gruppo « Guerra di classe per il comunismo », sono un campanello d'allarme. E' appena l'abbozzo di un quadro, ma ci aiuta a comprendere lo sfogo dei «capi intermedi» che incontriamo all'inizio del nostro viaggio. L'età media è di quarantacinque anni. Quasi tutti hanno fatto la «trafila», cioè operaio, operatore e infine «capo». «Siamo nati col martello in mano» e si avverte l'orgoglio di una posizione conquistata lavorando giorno dopo giorno. Guadagno? «Si immagina chissà che cosa, invece passando da operatore a capo si prendono duemila lire in più al mese. Poco vero?». Perché la loro posizione è diventata così difficile all'interno della Fiat? E' un'amara biografia che può essere divisa in tre capitoli. Il primo è storia di violenze, una storia che incomincia qualche anno fa. La Fiat si espande, ogni giorno arrivano dal Sud treni carichi di gente. E' una migrazione destinata a trasformare il tessuto della nostra società, un fatto traumatico per migliaia dì persone giunte in una città che non aveva strutture idonee. I capi Fiat dicono: «Le grandi assunzioni sono state un grosso errore storico. Troppa gente venuta allo sbaraglio. Come potevano volerci bene quando gli davamo soltanto lavoro?». L'impatto è violento anche in fabbrica. Scontro di mentalità, di abitudini, di «culture» diverse. I capi: «Non eravamo preparati psicologicamente a riceverli, non ci era stata data la possibilità di conoscerli. Bisognava farli produrre e basta». E occorre tener presente anche che era gente venuta dai campi, abituata a un tipo dì vita difficilmente adattabile ai condizionamenti della catena di montaggio e «a un sistema autoritario che dovevano subire per non morir di fame». Su questo terreno minato dove crescono delusione, malcontento, rabbia «ha puntato gli occhi l'ultrasinistra». Dicono i capi Fiat che è stata un'opera capillare, minuziosa: il capo indicato di volta in volta «come il servo, il cane del padrone, il simbolo di un sistema da abbattere». In alcuni immigrati il senso di frustrazione individuale diventa senso di frustrazione collettiva. Il clima si deteriora. Scioperi selvaggi, poi le violenze. «Gruppuscoli armati di buoni bastoni e di bulloni distruggevano pezzi e scocche, e a questi gruppuscoli se ne sono aggiunti altri. Sono incominciate la caccia al capo, le spinte, le estromissioni dallo stabilimento, qualche volta ci sono state le bastonature». Questa atmosfera, che ha raggiunto talora temperature altissime, è durata sino al marzo del '74. Poi, dicono i capi, c'è stato un cambiamento. «La maggior parte degli operai non condivideva simili comportamenti e forse per questo le violenze si sono trasferite all'esterno della fabbrica». Con i risultati che abbiamo visto: incendi e sparatorie. Dentro gli stabilimenti è rimasto il clima intimidatorio: cortei improvvisi di due-trecento persone, distribuzione soprattutto da parte di esponenti di Lotta continua di volantini e opuscoli con l'elenco dei capi sgraditi, quasi liste di proscrizione. « Sembra — affermano — che con quel comportamento si voglia tener desta l'attenzione degli operai, creare un clima di tensione innaturale, gratuito, perché, secondo noi, i problemi più grossi, dall'antinfortunistica al miglioramento dell'ambiente, sono stati risolti e, anche se la catena di montaggio rimane, il lavoro con i nuovi ritmi è diventato più tollerabile, e in generale il clima autoritario di una volta non c'è più». Umiliati Sotto la spinta di queste azioni intimidatorie il « capo » ci appare isolato, senza valida guida. E a questo punto si aprono gli altri due capitoli della sua drammatica biografia: i rapporti con la Firn e con la direzione aziendale. Il sindacato « prende le distanze » quando accadono episodi d'intolleranza e d'intimidazione, ma non si adopera in modo adeguato a prevenirli. D'altro lato i «capi» si sentono scavalcati dai rappresentanti dei lavoratori che hanno acquistato via via un peso più rilevante accompagnato anche da una preparazione notevole e da un'accentuata capacità dialettica. « Chiediamo dieci lire d'aumento per un operaio che se le merita e l'azienda ce le nega, si muove il sindacato e ottiene ventotto lire in più per tutto il reparto ». Non è che un esempio, ma è già significativo: il capo che non può premiare si sente sminuito nella sua autorità. «Eravamo qualcosa, contavamo qualcosa, adesso ci guardano e sembra che dicano: "Ma tu chi sei, chi credi di essere?" ». / capi allora guardano all'azienda, ma si accorgono che « i direttori ci tengono in conto né più né meno dei sindacati. E questa è l'umiliazione maggiore ». L'azienda — affermano — prende decisioni senza consultarli, non li coinvolge nel discorso sull'organizzazione del lavoro, come fa invece con i sindacati. « Noi vorremmo essere più partecipi, conoscere bene gli obiettivi della direzione, poter dialogare con i rappresentanti sindacali. Siamo invece soltanto controllori ed esecutori di ordini che ci vengono da tutte le parti, anche dai delegati eletti dai lavoratori». E sono « ordini » talvolta contraddittori che mettono in luce l'ibrida posizione del capo. « L'altro giorno un dirigente mi dice di spostare tre operai nel tal reparto e io "sissignore", non passano tre minuti che mi arrivano trenta delegati e mi dicono di riportare indietro gli operai e io " sissignore ". Ecco cosa sono io capo Fiat, trenta- tré anni di attività alle spalle ». C'è chi scuote il capo. « Ma perché abbiamo messo la firma sotto la nostra nomina? Nói fuma mach i galópin ». Questa, in estrema sintesi, la storia dei capi Fiat, se non di tutti, certo di una buona parte. Ci sono esagerazioni, forzature? Possono esserci forse toni un po' troppo accesi, punte che dovrebbero essere smussate ma molti riconoscono che il mestiere di capo oggi è molto difficile. Dice il dott. Baro: « Negli ultimi dieci anni le aziende afferrate dalla necescità di problemi sempre più pressanti e urgenti hanno trascurato i capi. Li hanno trascurati sul piano della preparazione, selezione, comunicazione, corresponsabilizzazione ». D'altro lato l'ing. Rinaldo De Pieri, capo del personale Fiat, afferma: « Secondo noi il capo rimane il perno fondamentale di una struttura produttiva che voglia ancora mantenere un minimo di rispetto delle regole di efficienza. Il capo però oggi è un po' il caporale che ha perduto gli strumenti classici di gestione dell'autorità e allora bisogna trovare il modo di riempire questo ruolo mediante strumenti più professionali. Il capo è un lavoratore che ha più che mai bisogno di veder arricchita la sua funzione ». Anche da parte sindacale, sotto altri profili, si parla di « modo nuovo » di essere capo. E' un tema di grande attualità. Clemente Granata

Persone citate: Aldo Baro, Fossat, Rinaldo De Pieri, Rivolta

Luoghi citati: Italia, Torino