Mito greco

Mito greco LA CRONACA DELLA TELEVISIONE Vecchio fascino di Casablanca Il ritorno di un famoso film, con Ingrid Bergman e Humphrey Bogart - Domenica: garbato debutto di una storia di ragazzi meridionali Gli anni sono passati anche per Casablanca, naturalmente. Ma diremmo che dopo tanto tempo il fascino di questo film non grande, non eccezionale, ma famoso, è rimasto; ed è rimasto anche nell'angusto rettangolo televisivo che com'è noto non aiuta nessuna pellicola, specie quelle di una certa età. Casablanca è del 1942. Teoricamente è un film di guerra e di spionaggio e dovrebbe rientrare nel grosso filone del cinema di propaganda: c'è il nazismo, c'è l'Europa invasa da Hitler, c'è il movimento di resistenza, c'è il dramma dei profughi. Ma già allora ci si era resi conto — e oggi più che mai — che in fondo i riferimenti alle tragiche vicende del momento non interessano il regista Michael Curtiz. La credibilità politica dei personaggi ci appariva ieri sera alquanto scarsa e in qualche caso addirittura nulla. Curtiz si è preoccupato di tutt'altro: si è preoccupato di ricostruire un'atmosfera esotica, misteriosa, decadente, irreale, e di quest'atmosfera ha raccontato una storia d'amore vista attraverso la nostalgia e il melanconico ricordo di un uomo. Gli spettatori non più giovani devono aver recuperato l'antica ammirazione per Casablanca (il successo, allora, fu notevole in tutto il mondo, e duraturo, consacrato dall'Oscar). Ma siamo sicuri che anche gli spettatori giovani l'hanno apprezzato nella sua dimensione di film frutto di un'esperienza professionale di prim'ordine, dove si fondono la necessità di cassetta e « un tocco in più ». Tutto è molto datato, ovviamente, ma è il bello del .ìlm: che si avvale di uno schieramento straordinario di interpreti, da Bogart, che qui raggiunge veramente uno dei vertici della sua carriera, ad una fine Ingrid Bergman, dall'ambiguo Claude Rains al truce Conrad Veidt, dallo strisciante Peter Lorre all'enorme, immancabile Sidney Greenstreet, dal distinto Paul Henreid (il marito) a Marcel Dalio. E già che siamo nel discorso del cinema ci sia concesso un breve salto all'indietro, a sabato. Il ciclo dedicato alla produzione delle repubbliche sovietiche meritava senza dubbio una migliore collocazione. Comunque stiamo contenti cosi, che la tv si sia presa la briga di importare e doppiare sei pellicole che altrimenti avremmo ignorato perché come ognuno può constatare, i film dell'Europa orientale e in particolare quelli dell'TJrss non compaiono mai nelle nostre sale. Il debutto, che è stato accompagnato da una chiarificatrice e puntualizzatrice introduzione del critico Giovanni Graz- zini, è avvenuto con Stazione di Bielorussia del trentenne regista Andrej Smirnov: vicenda di quattro compagni d'armi che si ritrovano dopo venticinque anni e che rivelano d'essere rimasti disperatamente aggrappati al clima eroico, esultante della guerra, cioè ad un passato lontano e irrevocabile. Un film non facile, ma acuto e dolente, che permetteva di guardare « dentro » l'ambiente quotidiano sovietico al di fuori di qualsiasi schema ufficiale e trionfalistico. Il ciclo ci sembra importante proprio per questa sua possibilità di metterci a contatto con gli umori, i fermenti e i mutamenti di una certa parte della Russia. Passiamo a domenica sera, all'esordo dello sceneggiato Una città in fondo alla strada con regìa di Mauro Severino da un soggetto di Fabio Carpi, Luigi Malerba e Renato Ghiotto (lo scrittore e giornalista da poco condannato assurdamente a due anni per presunte rivelazioni di segreti diplomatici). Esordio assai garbato e gentile, con i due protagonisti, Massimo Ranieri e Giovanna Carola, pieni di vivacità e di simpatia umana. Peccato che, al solito, il ritmo sia stato di tipo televisivo, cioè troppo lento, così da raccontare in un'ora e dieci quello che si poteva dire in meno di metà tempo. u. bz.

Luoghi citati: Bielorussia, Europa, Russia