ll poema dei babilonesi e la favola di Pulcinella
ll poema dei babilonesi e la favola di Pulcinella Due spettacoli teatrali al festival di Chieri ll poema dei babilonesi e la favola di Pulcinella Prima dei due bravi attori del teatro Pekarna di Lubiana che hanno recitato e soprattutto mimato le avventure, le imprese e i sogni di un Eracle mesopotamico, converrà lodare il pubblico sempre foltissimo del festival di Chieri che nel cortile di palazzo comunale ha assistito ieri sera in silenzio, e ha anche applaudito, a uno spettacolo del quale non riusciva ad afferrare il senso. E non tanto per la barriera della lingua — oltre a tutto i due interpreti parlavano poco — quanto perché non si è pensato di affidare a uno speaker all'inizio della rappresentazione un breve ma chiaro sunto e ci si è fidati di una misteriosa e interminabile «sintesi» della vicenda, fittamente ciclostilata su due fogli consegnati all'ingresso. Premesso questo, si può aggiungere che Gilgamesh, presentato dalla compagnia jugoslava nell'adattamento e con la regìa di Ivo Svetina, è un tentativo di tradurre più in gesti che in parole una parte dei 3500 versi di un poema epico dei babilonesi e degli assiri sulla figura di un semidio che invano anela all'immortalità: essendo anche uomo, non potrà mai ottenerla. L'epopea di Gilgamesh, nel quale il regista ha voluto leggere un archetipo dell'umanità, è raccontata nei modi di un'accesa gestualità da un attore e un'attrice (Koci Kodric e Maja Boh) che, vestiti unicamente di una sorta di tunica o grembiale di cuoio, e servendosi talvolta di maschere rituali, interpretano tutti i personaggi che affollano il poema. Anche Cauricchio è una favola, e un sogno, e anche il suo protagonista è un simbolo, ma lo spettacolo presentato dai giovani del «Teatro dei 10» di Taranto sotto la tenda del teatro-circo è di agevole lettura se non altro perché affonda le sue radici in una civiltà teatrale e in una cultura popolare che più o meno tutti conoscono. Cauricchio è un povero pescatore di Taranto che, per rinverdire e nobilitare le tradizioni culturali della sua terra, chiede alle maschere della Commedia dell'Arte ormai museificate, di essere accolto fra loro: «Voglio di- ventare anch'io una maschera famosa, ditemi come si fa». Ma Cauricchio non sa fare niente e allora Pulcinella, dopo avergli mostrato con i colleghi un saggio della propria arte, lo esorta ad andare in giro per il suo paese, a conoscere gente, a farsi un'esperienza. Cauricchio segue il consiglio e, tornato da un lungo viaggio con un compagno che suona e canta con lui, eccolo recitare un'antica laude in tarantino e sfrenarsi in canzoni e balli della sua terra. L'invenzione è gentile ma non è risolta in modo drammaturgicamente convincente e utile: più che alla recita di un canovaccio dell'Arte e all'esibizione della nuova maschera, sarebbe stato interessante assistere proprio a quel viaggio, che è poi un ritorno alle origini, che Cauricchio compie in mezzo al suo popolo. Qui, al contrario, ciò che conveniva mostrare è soltanto raccontato, e di sfuggita, e si perde una buona occasione per un discorso teatrale sull'emarginazione culturale del Sud, sul riemergere delle tradizioni popolari e sul modo di innestarle in una nuova cultura, che sono poi gli argomenti che stanno maggiormente a cuore a questi giovani. Il che non toglie nulla all'impegno e alla bravura con cui essi si prodigano in una rappresentazione collettiva alla quale ciascuno ha cercato di portare il bagaglio delle proprie idee e delle proprie esperienze. a. bl.
Persone citate: Koci Kodric, Maja Boh
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