LA MOSTRA DI POGGIO A CAIANO di Marziano Bernardi

LA MOSTRA DI POGGIO A CAIANO LA MOSTRA DI POGGIO A CAIANO Ardengo Soffici il tosco-parigino (Dal nostro inviato speciale) Poggio a Caiono, giugno. Per Ardengo Sodici basi della pittura furono la forma e la materia pittorica. Il resto, cioè le intenzioni e le teorie che si possono affidare all'invenzione e alla composizione di un quadro, passava in seconda linea; ed era una posizione estetica manifestata sia rei giudicare l'opera altrui durante il suo lungo esercizio critico, sia nella propria espressione poetica. Nel suo « Giornale di bordo » chiedeva alla parola di essere « un segno autonomo, folgorante, irradiarne », anelava a « posar le parole come il pittore i colori »; e scriveva su « Lacerba » proprio nel momento della sua transitoria adesione al Futurismo, in precedenza da lui così duramente condannato: « Una pittura ci dà il senso plastico della realtà... Ciò che permane come valore assoluto di un capolavoro di pittura è la qualità della materia pittorica ». (Giorgio de Chirico potrebbe sottoscrivere). Di qui, trascorsi più di sessantanni da quell'affermazione, il perdurare della sua modernità. Di qui, anche, la scarsa importanza ch'egli dava all'originalità del « motivo » pittorico. Nell'occasione che ora diremo Franco Russoli ha osservato: « Non era poi ricco di fantasia, né immaginifico: trovato un motivo, lo sfruttava, ripeteva, variava, in epoche e tecniche diverse. La sua fantasia era nell'elaborazione stilistica, non nell'invenzione iconografica ». Basta confrontare, per convincersene, i suoi paesaggi eseguiti a Poggio ed a Bulciano nella felice stagione pittorica 1907-1910, così schiettamente « naturalistici », con quelli, parimenti naturalistici malgrado le intensificate nuove esperienze parigine, degli anni Venti e Trenta. Sono sorprendentemente simili: eppure frammezzo era passata nella sua ricerca la ventata cubo-futurista. L'occasione per trovar conferma della coerenza artistica, letteraria, poetica (e sotto sotto, sul tardi, cocciutamente conservatrice a dispetto dello spirito rivoluzionario giovanile) di Soffici, è la splendida mostra principalmente curata da Russoli, Mario Richter, Geno Pampaloni, Marisa Conti, che il comune di Poggio a Caiano e l'azienda per il turismo di Prato hanno organizzato nella celebre villa medicea di Poggio a Caiano, progettata da Giuliano da Sangallo, decorata con gli affreschi dell'Allori e del Pontormo. A questa rassegna rimproveriamo soltanto la brevità della durata — il solo mese di giugno — sproporzionata a tanta fatica di ricerche e di studi. A un anno dal decennio della sua morte (1964) in Vittoria Apuana, l'artista toscano è rievocato nel luogo dove dimorò e lavorò dal 1907, tolti i soggiorni a Parigi e altrove, con una oculatissima scelta, fatta dal Russoli, di 89 dipinti, centinaia di disegni, pastelli, acquerelli, incisioni, litografie. Vi si aggiungono riferimenti iconografici e culturali, documenti storici e letterari: ne vien fuori una pressoché completa testimonianza dell'attività e della collocazione del Soffici pittore, scrittore, poeta, nella cultura europea nei primi lustri del Novecento. Si sa che la sua formazione intellettuale si compì a Parigi, dove, ventenne squattrinato (nacque nel 1879 al Bombone, frazione di Rignano sull'Arno, figlio di un fattore), era giunto nel novembre 1900, e dove visse quasi ininterrottamente fino al 1907. Fu il suo grande vantaggio su quasi tutti gli altri artisti e letterati italiani della sua generazione. Per lui Parigi significò la collaborazione, subito, a « La Piume », alla « Revue Bianche », ad altre riviste d'avanguardia; i contatti o le amicizie con Moréas. Apollinaire, il russo Jastrebzoff, Picasso, Jacob, e gli altri compagni di rue Ravignan; più tardi, nelle successive soste parigine, con Rémy de Gourmont, Fénéon sostenitore dei Simbolisti, Péguy, Sorci, Gide. Bergson, Ccndrars, Rousseau '1 Doganiere, de Chirico, Savinio; significò le partecipazioni al Salon des Indépendants e al Salon d'Automne; insomma, l'apertura culturale sull'Europa. Russoli nel saggio dell'eccellente catalogo della mostra — nel quale va segnalata utilissima la bibliografia sofficiana curata dal Richver, di cui però non ci spieghiamo la mancata citazione delle limpide pagine di Cecchi nella Storia della letteratura italiana, IX volume, di Garzanti, certo a lui note — con l'acutezza e la sottigliezza critica che gli è propria ha precisato i risul¬ tati delle lunghe meditazioni di Soffici su Puvis de Chavanne, Millet, Cézanne, Mcdardo Rosso, Degas, Rousseau, Picasso, Braque, a volte persino Redon, sottolineando la sua « profonda e risolta interpretazione italiana delle sorgenti della pittura moderna ». Stimoli culturali francesi, dunque; innestati però sul nativo sentimento dell'italianità di Giotto e Masaccio, e anche di una toscanità popolaresca che faceva convivere in lui — avverte Russoli — « la luci/crina complessità linguistica di Picasso e compagni » con la semplicità, e addirittura il candore, degli emblemi più immediati della decorazione artigianale, come si vede, qui per la prima volta esposta intera, nelìa gustosa, divertente decorazione d'un salotto della casa di Papini a Bulciano, dipinta nell'estate 1914 con evidenti citazioni da Picasso (« Lcs demoiselles d'Avignon »), da DeIaunay, Chagall, Derain, Van Dongen. E sempre Io sosteneva una fiducia profonda nei valori artistici e poetici della tradizione italiana, da un lato (si pensi al suo giovanile interesse per il Foscolo), e dall'altro in quelli della Francia moderna: dagli Impressionisti che presentò a Firenze nel 1910 ad inizativa sua e della « Voce », a Rimbaud cui dedicò l'anno dopo un « Quaderno della Voce », mentre sulla stessa rivista propagandava Picasso e Braque, con un'anticipazione di decenni sull'inforr..azione italiana. Perciò il suo accostarsi verso il 1912 al Cubismo e tosto, dopo il famoso e furioso pugilato con Marinetti, Boccioni e Carrà al caffè delle « Giubbe Rosse » a Firenze, al movimento futurista che lo impegnò fino alla guerra cui egli partecipò da combattente volontario (e va ricordato il « Kobilek », giornale di battaglia, 1918), fu un fatto spontaneo e naturale dell'artista che nella pittura cercava soprattutto dei « valori plastici » o, per dirla col Focillon, la « Vie des formes »; benché nei suoi quadri di quegli anni il linguaggio cubista prevalga sempre su quello futurista. Una parentesi linguistica chiusa verso il 1919 quando il suo più autentico temperamento riprese, a nostro modo di vedere, il sopravvento. Non siamo quindi d'accordo col Russoli che parla, per l'abbandono del Cubo-futurismo, di « ri/irata del Soffici » sia |-ure con l'onore delle armi: « confuse la contemporaneità col Novecento, e si ritirò a cantare il giro delle stagioni e delle ore nella Arcadia toscana... la sua pittura, dopo il 1919, è come "fuori del tempo ", almeno del nostro tempo storico e culturale ». E chi ha detto che il nostro tempo storico e culturale non possa situare, a pari merito, un dipinto di paesaggio accanto a un « collage » cubista? A volte i letterati, meno impacciati dei critici dalle teorie e dalle esigenze di gusto, vedono più limpidamente nella realtà dell'arte, e pensiamo si possa dar ragione ad Antonio Baldini nel suo giudizio su la « più profonda natura » del Soffici scrittore che non è «lutto e solo nelle bombe colorate del novecenlotredici e quattordici »; giudizio che calza benissimo anche al Soffici pittore. E non un letterato, ma un critico celebre, Lionello Venturi, concorda col Baldini. Scriveva nel 1926 recensendo su Il Secolo di Milano la Biennale di Venezia: « Se volete comprendere Soffici... dimenticate che è stato futurista... i paesaggi di Soffici sono a un di presso ciò che si vede dalle finestre della sua casa ». Probabilmente il « vero » Soffici fu quello che il Venturi lodava con accenti commossi insistendo sull'intonazione ammirevole dei colori. Il « vero » Soffici, che traduceva in termini moderni il paesaggio toscano dell'Angelico. Marziano Bernardi