Giornali e partiti rapporto difficile di Andrea Barbato

Giornali e partiti rapporto difficile ECHI DI UNA POLEMICA Giornali e partiti rapporto difficile I giornalisti, almeno in parte, sono in un cerio senso sotto accusa. Il terremoto cletlorale non risparmia neppure il mondo delle comunicazioni sociali. Si rimprovera apertamente, ad alcuni settori della stampa, d'aver indirizzato gli umori del pubblico, fino a condizionare le scelte, la qualità del consenso. La prima, spontanea reazione, sarebbe quella d'accettare la critica, c anzi di farne motivo d'orgoglio: se essa fosse esatta, ciò vorrebbe dire che la forza dei «fabbricanti d'opinione» c la credibilità dei giornali e ancora intatta, e che le testate giornalistiche — assediale da mille problemi economici — non sono state ancora espugnale del tutto. Ma prima di cedere a questo stato d'animo, prima di concludere che il quarto potere ha miracolosamcnle resistilo a confondersi con gli altri poteri, esaminiamo i dati più recenti, ricostruiamo il «processo alla stampa» che si sta tentando. Alla direzione democristiana di giovedì, più che i tormenti dell'autocritica, sono risuonati giudizi taglienti. Il senatore FanFani, nel lungo elenco delle cause che a suo avviso hanno portalo all'arretramento del suo partito, ha voluto anche annotare che alcuni giornali «hanno contribuito spregiudicatamente alla critica corrosiva della situazione italiana». E fin qui non vi sarebbe nulla di cui dolersi, se non l'accento di rimprovero contenuto negli aggettivi e negli avverbi. Che un giornale sia spregiudicato e critico, non cessa d'essere un dovere professionale, anche se può dispiacere agli oggetti della critica slessa. Più esplicitamente accusatorie sono altre due frasi: laddove Fanfani accusa parte della stampa d'aver assunto «una posizione accentuatamente dimentica dì qualsiasi benemerenza detta de», e laddove attribuisce l'aumento di voti socialisti al «sostegno di alcuni giornali curiosamente finanziati da non consenzienti alle tesi socialiste». La prima frase, che assume un senso solo se completata da nomi e cognomi, può essere giustificata in parte da certi eccessi, ma dovrebbe tuttavia indurre i dirigenti politici a meditare sulle cause di quella che non è certo una bizzarria di intellettuali, un'improvvisa e inspiegabile malevolenza. A quali giornali ci si riferisce? E perche confondere il dibattito (che è stalo vivace nella stessa de) con un presunto spirilo di persecuzione? La seconda frase può dimostrare la delusione verso alcune operazioni (quelle sì spregiudicate) di acquisto di testate, per scoprire all'indomani che non era stato comprato anche lo spirito d'indipendenza di chi — per legge oltre che per vocazione — ha il compito di criticare i ritardi del potere o le insufficienze del sistema. Tutti contro la de? E allora ci si dimostri che cosa abbiamo taciuto, di segno contrario, in questi mesi. E ci si spieghi perché l'avanzata comunista del 15 giugno è avvenuta anche e forse più in quelle regioni in cui esiste da sempre il predominio o addirittura il monopolio di una stampa non comunista, quando non apertamente anticomunista. Un gramsciano direbbe che ciò accade perché «la verità è sempre rivoluzionaria», uno scettico direbbe che i giornali sono inascoltati, e l'orse avrebbero torto entrambi. Nella tribuna elettorale televisiva dell'I 1 giugno, ad un giornalista noto per la sua compiacenza, e che attaccava con argomenti assurdi la «stampa indipendente», Io stesso Fanfani disse d'aspettarsi un trattamento migliore per la de dopo le elezioni, visto che il suo partito non era ancora disposto a farsi seppellire. L'augurio è legittimo, l'implicito ammonimento lo è di meno. Anche perché esso era accompagnato e seguito da episodi inquietanti. In maggio, dopo l'aggressione a Massimo De Carolis a Milano, la direzione e i giornali del partito di maggioranza avevano voluto respingere l'accusa secondo la quale la de sarebbe «beneficiaria del clima di tensione e di violenza». Accusa certo irresponsabile, ma proprio per questo non degna di risposta, né tantomeno degna dell'animosità dimostrata dal segretario milanese della de, presidente del consiglio regionale lombardo, verso i giornali non inclini al consenso automatico. La condanna del giornalista Renato Ghiotto, da parte della Corte d'Assise di Roma, ad una pena che lo eselude dal beneficio della condizionale, per aver rivelato un rapporto diplomatico quasi incredibile, e per averlo definito tale, ha suonato coni;' una vendetta e un monito. Ed è di ieri la notizia delle forzate dimissioni del direttore del massimo quotidiano romano, reo forse di non aver piegato il giornale ai desideri della nuova proprietà. Una volta, il presidente della Federazione degli editori (non certo sospetto di spirito assemblearistico) disse che la libertà di stampa è come il carbone, chi 10 tocca si sporca o si brucia. Noi ricorderemo la parabola di quella regina che velava gli specchi per non vedere riflesso 11 suo volto rugoso. I rapporti fra il potere e l'informazione non sono facili, ma presumono che almeno ciascuno faccia la sua parte. Ai giornalisti compete evitare gli eccessi, ma anche denunciare storture, scandali e lentezze. Sappiamo tutti che è ingenuo avere del giornalismo un'immagine da libro di lettura, la pratica somiglia poco all'ideale. Ma perderebbe ogni senso se fosse una fabbrica di consensi, o se rinunciasse a quel ruolo_di opposizione costruttiva che" è naturale di ogni forma, anche minore, dell'attività culturale. Dovremmo domandarci, sem- mai, dove siamo troppo deboli, o timidi, se il terrorismo è ancora mascherato, se i servizi dello Stato deperiscono, se troppo spesso gli scandali restano senza nome e senza sanzione. Questo tipo di autocritica possiamo accettarlo: se fossimo riusciti a sapere di più, a rivelare di più, forse non avremmo assistito ad un così imponente voto di protesta. Chi accusa i giornali del contrario, continua a leggere senza occhiali la realtà italiana. Infine, le accuse che vengono mosse a quella parte della stampa nascondono un'illusione pericolosa. E cioè che la condiscendenza, anche se fosse possibile, sarebbe utile ai gestori del potere. Nel mondo, la generazione televisiva non è cresciuta condizionata c conformista come qualche sociologo temeva. E in Italia, qualche anno di uso parziale dell'informazione televisiva (il maggior giornale italiano, diffuso in ogni casa) non è riuscito a creare il «consenso elettronico». Non è una dichiarazione di fallimento delle comunicazioni di massa, ma è il segnale che nessuno può più sentirsi padrone del pensiero altrui. La neutralità è un mito, il problema è politico, l'industria delle notizie non vive in terra di nessuno: ma un modo per accelerarne la crisi è di chiederle conformismo o silenzi. Le accuse fanno i giornalisti meno protetti, ma perciò più liberi. E' il momento d'accorgersi che i tempi sono cambiati per tutti, per chi i giornali li scrive, per chi li legge e infine per chi li compra. Andrea Barbato

Persone citate: Fanfani, Massimo De Carolis, Renato Ghiotto

Luoghi citati: Italia, Milano, Roma