Il selvatico maestro di Marziano Bernardi

Il selvatico maestro LA MOSTRA DI LIGABUE A GUALTIERI Il selvatico maestro Nel decennale della morte, dipinti, sculture e documenti gli conferiscono infine una precisa identità artistica - Fascino di un personaggio sospeso tra genio e follia (Dal nostro inviato speciale) Gualtieri, giugno. Alla grande esposizione organizzata dal Comune di Gualtieri nel maestoso cinquecentesco Palazzo Bentivoglio, 250 dipinti con sculture, disegni, documenti, lettere, fotografìe, testimonianze varie per la prima volta reperiti — un notevole, encomiabile sforzo, anche economico, per il piccolo centro emiliano — si deve se lo straordinario personaggio che fu Antonio Ligabue, trascorsi dieci anni dalla sua morto in un ricovero di mendicità, ha finalmente trovato una precisa identità artistica. Un uomo psichicamente tarato fin dall'infanzia derelitta, già affidato tredicenne a un istituto per giovani anormali, mentalmente ritardati, e da allora replicatamente accolto con le carte di povertà in ospedali psichiatrici sia in Svizzera che in Italia, soltanto con un pietoso eufemismo può evitare la diagnosi di latente schizofrenico, sia pure innocuo per sé e per gli altri. Eppure l'atto del battesimo somministratogli sul letto d'ammalato due anni prima che morisse nell'ospizio Carri di Gualtieri reca l'annotazione « Celebre pittore detto "il Toni" », e la critica d'oggi non esita ad annoverarlo tra i grandi artisti contemporanei, od almeno a riconoscere l'eccezionale interesse della sua pittura, escludendola, com'è giusto, dalla connotazione naìve ( tanto diversi — scrive Raf- faele De Grada — i suoi «/e- Ucci visionari dalle annota- zioni infantiliste dei naifs», e | gli fanno eco Renato Barilli, Attilio Bertolucci, Leone Piccioni); mentre il mercato esalta le sue opere. Dunque « maestro » il selvatico pittore che nel tremendo inverno 1927-28 che aveva fatto gelare il Po presso Guastalla lo scultore Marino Mazzacurati, suo « scopritore » ed in seguito paziente insegnante, scorgeva sulla soglia d'una sgangherata baracca presso il fiume, infagottato in una vecchia divisa di carabiniere donatagli da un maresciallo, che, troppo larga per lui, egli aveva imbottito di fieno, « così che sembrava un fantoccio ». Era occupato a lessare un gatto per il suo desinare, e si spaventò vedendo uno sconosciuto: « Ci vollero molti giorni — ricordava il Mazzacurati — prima di avviare una conversazione molto prudente, a molti metri di di- ti d'alcool finirà col rimpa triare, ricoverato nell'ospeda le Carri dove morirà nel 1949. Ma la vera famiglia di Anto nio fu costituita da una cop- stanza per aver modo di stu- \ diarmi ». Quell'anno Antonio Ligabue (per l'anagrafe «Laccabue») era sulla trentina, nato nel 1899 in un ospedale femminile di Zurigo, figlio di un'operaia emigrata dal Veneto in Svizzera, e di padre ignoto: a meno che la sua paternità non vada ascritta a quel Bonfiglio Laccabue, nativo di Gualtieri, anche lui emigrato, che legittimò il piccolo Antonio dandogli il proprio cognome: uno sciagurato che passando da mestiere a mestiere copiosamente annaffia- pia, svizzera-tedesca che, priva di figliolanza, prese con sé a soli nove mesi il fanciullo e bene o male malgrado le ristrettezze economiche lo allevò, probabilmente sottraen- do alla morte una misera icreatura gracile e gozzuta, affetta di rachitismo. Nel bel volume - catalogo edito dal Comune di Gualtieri per la mostra — cui hanno collaborato il De Grada, Sergio Negri, Gaetano Arfè, Renato Barilli, Attilio Bertolucci, Carlo Bo, Alberto Moravia, Leone Piccioni, Cesare Zavattini — Marzio Dall'Acqua con una lunga e paziente ricerca archivistica ha ripercorso tutte le tappe della povera vicenda umana di Ligabue. Esce così dalla nebbia di notizie finora confuse e spesso contraddittorie l'esatta immagine fisica e morale dell'infelice ragazzo: il suo attaccamento morboso talora contrastato da cupi risentimenti, per la madre d'adozione; il suo temperamento aggressivo e violento che a volte esplodeva in incontrollati furori; l'inettitudine a studi regolari compensata da una singolare disposizione al disegno peraltro inavvertita dagli insegnanti; la sua malinconia durante la clausura nell'istituto evangelico di Marbach; la lunga serie dei vagabondaggi lavorando come manovale; il ricovero nella clinica psichiatrica di Pfàfers; la visita militare nel 1918 presso il consolato italiano di Zurigo risoltasi con la dichiarazione di « riformato »; infine l'anno dopo l'espulsione dalla Svizzera. Segue a Chiasso un intricato carteggio d'uffici, nel quale Antonio è scambiato col padre e il nome Laccabue diventa Ligabue, e il 9 agosto 1919 il giovane impaurito che non sa una parola d'italiano, scortato dai carabinieri, perviene a Gualtieri. Qui comincia la sua miserabile esistenza dalla quale tra lavoro occasionale e vera e propria mendicità, tra la selvatica libertà nella campagna emiliana e le ripetute degenze in ospedale, nascerà il pittore. Ma nella sua desolata solitudine ancor più ottenebrata da momenti di quasi follia, Antonio, imparato a stento l'uso della lingua italiana, continuò a corrispondere con la sua « seconda madre », indifferente invece alla tragedia che nel 1913 a- veva distrutto la sua famiglia, la madre vera e tre fratelli per avvelenamento da cibi avariati; e sempre lo punse un'acuta nostalgia deila Svizzera, manifestata da i vani tentativi d'espatrio, ed a e - anche più pateticamente dai convenzionali paesaggi « svizzeri », chalets e aguzze montagne, manieristicamente posti a sfondo di tanti suoi quadri. La sua pittura. Gli esperti l'hanno divisa in tre periodi: 1928-38, 1939-50, 1950-62; ma è una suddivisione che, ascrivendo al secondo periodo i più alti risultati espressivi, ci sembra un po' troppo schematica e rigida: appartiene al primo periodo una Fuga in Egitto, incantevole come una tavoletta d'un maestro primitivo senese, ed al terzo uno dei più potenti autoritratti dol pittore, che per il vigore stupendo della pennellata e l'imperiosità impressionante dall'evidenza psichica fa pensare a Van Gogh. Altro errore è di fare — forzandolo arbitrariamente verso il naif — di Ligabue il pendant italiano del francese Doganiere. Pensiamo all'epitaffio di Apollinaire: « Gentil Rousseau... », così calzante allo spirito di quell'artista sognatore. Ligabue non è « gentile »: è violento, feroce, crudele, perché violenta, feroce, crudele è stata ed è verso di lui la sorte, la vita intera; e perciò diffida degli uomini, forse li odia, e preferisce gli animali, i cui istinti si confanno con gli oscuri moti del suo animo. Tutta la sua pittura (ed anche la sua scarsa scultura) è popolata di magnifiche belve che si azzannano o predano, eli scene paurose od angosciose, di allusioni al lavoro penoso, umano o animalesco; i molti autoritratti sono tutti allucinati e spettrali; e ovunque serpeggia, con un malcelato orgoglio, una vena di repressa follia, che sfiorando il genio con esso lombrosianamente si confonde. Le incertezze dei principi (da pittore coi gessetti sui marciapiedi) commuovono come il caro balbettio d'un bimbo amato; poi subentra una misteriosa abilità: chi gliel'ha insegnata? E' a questo punto che il mondo fantastico, gremito d'immaginazioni esotiche, di Ligabue si spalanca, e lo spettacolo della sua pittura travolge. Marziano Bernardi