Quanti modelli per il "Nerone,,

Quanti modelli per il "Nerone,, L'opera di Boito alla Rai Quanti modelli per il "Nerone,, Successo dell'esecuzione, diretta da Gavazzerò, con uno stuolo di cantanti protagonisti A più di mezzo secolo dalla prima rappresentazione e a quasi vent'anni dall'ultima (Napoli 1957), il Nerone di Boito, eseguito in forma di concerto alla Rai, era per molti motivo di attesa quasi pari a quella che circondò la celebre «prima» toscaniniana alla Scala, salutata come l'ultima tappa di un'irrecuperabile età dell'oro del melodramma italiano. Se mai c'è stato da parlare di verifica e di controllo, questo era proprio il caso. Il risultato è su per giù lo stesso dell'altra volta: non si è in presenza di un nuovo capolavoro operistico, ma non si tratta nemmeno di una delusione rispetto al più fortunato Mefìstofele. Che cosa era successo tra Mefìstofele e Nerone? Prima di tutto era successo Wagner, che nel Mefìstofele di fatto non esiste, e nel Nerone invece ci sta di casa: colorito cupo, «nibelungico», della prima scena, notturna e cimiteriale, che si apre agli incubi dell'imperatore matricida; trionfalistiche reminiscenze del Walhalla verso la fine del medesimo atto, col ritorno di Nerone e le acclamazioni della folla, dopo la parentesi lirica del Pater noster di Rubria e del suo incontro con Asteria; le tristanerie del duetto tra Nerone e Asteria nel second'atto, e i frequenti effetti strumentali del tipo Tannhdusere Lohengrin, l'unico Wagner che Boito già conosscc^se al tempo del Mefìstofele. E poi è successo qutii'enorme fenomeno artistico, vissuto da Boito con sconvolgei,*r partecipazione, che è l'ultimo Verdi, ed anche questo è largamente presente specialmente nell'adozione di un declamato melodico spesso eccellente, ora in certe parti minori di singolare spicco verbalistico, come quella di Gobrias, ora anche nelle parti maggiori (le nitide parole di Panuel nel terzo atto: «Quando t'accolsi nella fe' novella, Non te lo chiesi, ti chiamai: — Sorella»). Il «si beva» dei sacerdoti mattacchioni nel grottesco d'apertura dell'atto secondo, gemello del brindisi di Jago nel primo atto d'Otello. E poi ci sono i consueti richiami boitiani al mondo alto del romanticismo tedesco: e chi del Freìschiitz e reminiscenze da Sinfonìe di Schumann percorrono il duetto Asteria-Simon Mago nel primo atto; un capriccio beethoveniano (sul finale della seconda Sinfonia) occhieggia nell'animazione festosa della folla accorrente al circo nel quarto atto. Tutto questo bagaglio di allusioni dotte, rarissimo per non dire unico nel clima del melodramma italiano, spiega da sé perché non ci si possa sentire in presenza d'un capolavoro. Sono rari i momenti in cui l'ascoltatore sia forzato a dirsi: «Ecco Boito!», mentre troppo frequenti sono quelli in cui ci si deve dire: Ecco Verdi! Ecco Wagner!». E perfino, in qualche caso: «Ecco Puccini!». Constatazione da avanzare con infinita cautela, stante la totale incertezza che regna intorno alle date di composizione dell'opera, ma per esempio nel tono da banditore con cui Gobrias annuncia i giochi del Circo non pare di cogliere un'eco di certi accenti buffoneschi di Rodolfo, Colline e Schaunard e Marcello? Gli interpreti Detto questo, l'opera vive d'una sua robusta consistenza musicale nella mossa varietà delle scene abilmente contrapposte e alternate. Bisogna sfatare come una fola la diceria, determinata dal fatto che Boito era prima di tutto un letterato, che gli mancasse il dominio della materia musicale. Figurarsi! Boito era musicalmente un furbacchione, come si vede benissimo anche nel Mefìstofele, e pecca se mai nel senso di un effettismo da mestierante di pochi scrupoli. Cos'è poi questo mestiere che sarebbe mancato a Boito? Si tratterebbe soltanto dell'orchestrazione, unico aspetto della musica che veramente dipenda in larga misura dell'esperienza diretta, dalla praticacela, come si dice. Ora il Nerone è strumentato benissimo, a meno di voler pensare che siano stati determinanti gli interventi di Toscanini e, a quanto si dice, di Vincenzo Tommasini e di Smareglia. Benissimo strumentato sia dal punto di vista della resa generale nell'insieme, sia dal punto di vista, più facilmente identificabile, delle singole ricercatezze, come quella danza della fanciulla gaditana, nei giochi circensi del quarto atto. L'armonia intesa in senso lato, come superamento del dualismo di canto e accompagnamento in una integrazione organica del discorso musicale, e anche come contrapposizione drammatica del calmo diatonismo per il mondo cristiano, e dell'esagitazione cromatica, o per grandi intervalli, nelle parti «negative» di Asteria, di Nerone e di Simon Mago, funziona benissimo, anche se non si picca di audacia innovatrice. La scrittura corale è delle più efficaci, e certo colore russo nelle acclamazioni del popolo a Nerone, sulla fine del primo atto, resta sorprendente, sembrando ben improbabile (sebbene non impossibile) che Boito potesse avere preso conoscenza delle folle del Boris. Ricordata ancora la finezza di certi compiacimenti eruditi (la doppia citazione d'uno dei rari frammenti di musica greca, nella canzone del viandante all'inizio dell'opera e nella danza della fanciulla gaditana), resta da rilevare che la struttura drammatica fondamentale è press'a poco la stessa del Mefìstofele, cioè la contrapposizione del Bene e del Male, e qui di due mondi, quello pagano che tramonta in fosche luci d'incendio e di orgia, e quello cristiano che sorge in chiarità mattinale. Di solito, in questi casi, la pittura del Male funziona ch'è un piacere, e quella del Bene fa slegare le calze. Il Nerone è uno dei pochi casi dove succede il contrario. E' innegabile quanto fu subito rilevato, che primeggiano le figure di Rubria e di Panuel, mentre quella di Nerone si perde per strada (forse si sarebbe riaffermata in quel quinto atto che Boito escluse, ma per il quale lasciò alcuni schizzi); Asteria è un bel personaggio proprio perché è stiracchiata tra i due mondi, come Kundry che è il suo evidente modello. Il mestiere Invece Simon Mago non ha un rilievo musicale e il secondo atto, che si svolge tuttj in campo pagano, a parte la bella riuscita strumentale nell'episodio del «magico specchio», è un disastro, così come risultano convenzionali le forme chiuse della romanza di Nerone all'ombra di Agrippina e del suo duetto con Simone nel primo atto. E il terzo atto, L'orto cristiano, è invece il migliore. Anche a prescindere dal gigantesco apparato della messa in scena, l'esecuzione del Nerone è un'impresa delle più esigenti. Ci sono cinque parti protagonistiche, contornate d'alcuni comprimari di grande spicco, e immerse in un colossale bailamme corale ed orchestrale. Se si tien conto che il baritono Cappuccini diede forfait all'ultimo momento, e Alessandro Cassis, scritturato per la particina di Dositeo, fu promosso sul campo da gregario a maglia rosa, come Fausto Bertoglio, studiandosi in pochi giorni la parte di Fanuel (con l'assistenza di Gavazzerà e del maestro concertatore Eros Cassardo), si può essere soddisfatti del risultato. Il tenore Bruno Prevedi ha difeso molto onorevolmente la sfuggente parte del protagonista in titolo, affrontandone a viso aperto i temibili acuti, mentre Uva Ligabue ha prodigato nella terribile parte di Asteria quella generosità e quella dedizione che la rendono una delle personalità più simpatiche nel colorito mondo del melodramma odierno. Ruza Baldani si è dimostrata una stilista, ed una bella voce, nella parte così poetica, ma anche un po' imbambolata, di Rubria. (Uno dei difetti capitali dell'opera è la capricciosa distribuzione delle due voci femminili: perché mai la serena, luminosa vergine cristiana ha voce grave e carnosa, e la demoniaca Asteria ha voce di soprano?). Della coraggiosa impresa affrontata dal baritono Cassis si è detto; Agostino Ferrin ha cercato di trarre buon partito dalla parte di Simon Mago, musicalmente non bella (sebbene il personaggio sia originale), e forse un po' alta per la sua voce di autentico basso. Nelle parti minori, sostenute da Antonio Zerbini, Anna Di Stasio, Corinna Vozza, Walter Brighi, Renzo Gonzales, Vinicio Cocchieri, sembra da segnalare specialmente l'efficacia con cui Gianpaolo Corradi ha reso la sfrontatezza tenorile di Gobrias. A tutto ha sovrainteso l'onnipresenza direttoriale di Gavazzerà, il Grande Protettore del melodramma post-verdiano, incalzando l'esecuzione, ! sbozzando il complesso dise| gno dell'opera, mettendo alla | frusta gli artisti, sorreggendo i gli incerti e colmando ogni eventuale lacuna. Il coro ha avuto una gran giornata, e il maestro Fulvio Angius non se l'è lasciata sfuggire, imponendo la propria compagine all'ammirazione incondizionata. Successo assai caldo, insistente, con molta gente che si accalcava ad applaudire nonostante l'ora tarda: fatto raro nelle consuetudini dell'Auditorium. Massimo Mila Animazione teatrale — Si è concluso presso il Centro studi del Teatro Stabile il corso di animazione teatrale, a cui hanno preso parte una quarantina di insegnanti. Si sono svolte lezioni con movimenti e tecniche espressive, gestuali e sonore, ricerca ritmica, applicazioni di movimenti di danza ed azione teatrale. I partecipanti hanno sollecitato per il prossimo anno un seminario di aggiornamento e di formazione permanente. Il Teatro Stabile, in un comunicato, « assicura fin d'ora la sua disponibilità a realizzare tale i richiesta ».

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