Le ossa degl'inglesi ed altri auspici

Le ossa degl'inglesi ed altri auspici Le ossa degl'inglesi ed altri auspici In un discorso famoso, pronunciato 1*11 gennaio '52 a Nuova York, alla Columbia University, l'allora ministro degli Esteri britannico Anthony Eden (premier era ancora Churchill), spiegò perché gl'Inglesi non potessero accogliere «i numerosi suggerimenti di unirsi a una Federazione europea». Disse, semplicemente: «This is something which ice knoiu in our bones that we cannot do» («E' qualcosa che sappiamo nelle nostre ossa di non poter fare»). Per la verità non c'era, in quel rifiuto, soltanto superbia o diffidenza verso il Continente. C'era ancora in Eden una vocazione mondiale che forse si nutriva di sogni, ma che non era certo ignobile. L'Impero era sul viale del tramonto, ma cresceva il «Commonwealth» e una volta l'anno una foto-ricordo mostrava un gruppo di statisti, sempre più folto e sempre più vario negli abiti esotici dei nuovi «Premiers», raccolti attorno alla giovane Elisabetta II (succeduta a Giorgio VI il 6 febbraio di quello stesso 1952). L'illusione di una missione universale ancora da svolgere teneva l'Inghilterra scostata dall'Europa. Cosi le ossa di Eden, anche se davano auspici erronei, meritavano rispetto. Più d'un ventennio dopo, tramontata l'ultima generazione di politici britannici cresciuti nell'epoca imperiale, le ossa degl'Inglesi hanno dato un altro responso. Respinte le tesi di un antieuropeismo gretto, ormai privo di nobili motivazioni, gli Inglesi hanno riscoperto la vocazione europea. Hanno forse scelto l'Europa anche per paura (chi si sente debole cerca la compagnia altrui), spaventati come sono dalle lampeggianti minacce d'ingovernabilità che oscurano l'orizzonte politico della più vecchia tra le democrazie; ma la paura è stata buona consigliera. Così gli Inglesi hanno dato a noi «continentali» (a nostra volta turbati da paure nient'affatto diverse) un favorevole auspicio che ha interrot to un lungo digiuno di buo ne nuove. ★ ★ La settimana testé conclusa, che in Italia è stata purtroppo ancora turbata da uno di quei sanguinosi episodi di banditismo parapolitico che sono come spie del nostro tormentato sviluppo, ci ha portato un altro buon auspicio: la riapertura del Canale di Suez, preceduta da un chiaro segnale di pace lanciato da Israele con l'arretramento delle sue forze nel Sinai. Poi si sono incrociate, attraverso i cieli infuocati del Medio Oriente, altre parole insolitamente serene. Appena pochi mesi fa la guerra in primavera sembrava quasi inevitabile agli osservatori più seri, e il fallimento della missione Kissinger sembrò rafforzare la nera profezia. Finora è andata diversamente. Ebrei ed Arabi ci appaiono ancora divisi dall'eredità di un'intera generazione di conflitti, ma incominciano a sembrarci parzialmente uniti, oltre che dalla paura della quinta guerra, anche da qualche idea positiva sul futuro. L'America post-vietnamita sta intanto gettando tutto il suo peso in uno sforzo di mediazione, che dovrebbe restituirle fiducia nei suoi destini di superpotenza. Questo sforzo americano, a noi sembra, potrebbe ricevere un nuovo e fondamentale sostegno dall'Europa, se questa darà prova di volontà politica non inferiore alla potenza economica, grandissima nonostante la crisi. La «paralisi da referendum» dovrebbe essere passata, la bella addormentata ridestarsi. Faccia l'Europa un inventario delle sue risorse e si accorgerà, con qualche sorpresa, di quanto siano poderose: non meno delle sue debolezze, di cui siamo tanto coscienti. ★ ★ Per cercare di uscire dalla nostra crisi, non mancano ragionate ipotesi di lavoro. Prendiamo come punto focale l'inflazione. Questo fe¬ nomeno ha radici psicologiche (attese illimitate, di fronte a risorse sempre limitate), politiche (un dilagante keynesianesimo, facilone e comodo), istituzionali (le nuove rigidezze dei fattori della produzione che derivano dai grandi poteri sindacali e dalle poderose strutture costruite a difesa del benessere generale e della giustizia sociale). Frutto, cioè, di molte scelte buone e di talune errate, l'inflazione rischia alla fine di rendere ingovernabili le nostre economie, di paralizzare il nostro sviluppo, di generare vasta disoccupazione e tensioni anarchiche. Rischia anche di accelerare una disastrosa mutazione statalista del sistema: la crisi universale dei bilanci aziendali trasferisce un numero sempre crescente di imprese nella «sfera pubblica», le nostre economie, da «miste», stanno diventando ministeriali e burocratiche. Rischiamo una penosa stagnazione, una tormentata decadenza. Possiamo evitarle? Possiamo, a condizione di agire insieme sui diversi fat¬ ton da cui dipende il nostrofuturo. Anzitutto bisogna raf-forzare il mercato europeo ed anche avviare la programmazione di una politica industriale europea, al fine di rafforzare gli stimoli compe- titivi, le strutture produttive, i meccanismi dell'innovazione tecnico-scientifica. Ma per questo occorrono istituzioni europee di nuovo in forte espansione. Possiamo anche cercare una nuova base di decollo per il nostro sviluppo facendo leva su quel poderoso aumento dei prezzi petroliferi che ci è parso, all'inizio, un così tremendo disastro. Lo spostamento, che ne è de rivato del •? ner cento della I rivato, dei 6 per cento delia 5 produzione globale dei Pae si consumatori verso i Paesi produttori (a paragone dell'obiettivo mai raggiunto di trasferire l'uno per cento delle risorse delle Nazioni ricche a quelle in via di sviluppo), potrà mettere in moto un meccanismo nuovo e più equo di crescita universale, se soltanto sapremo regolare i flussi finanziari e mercantili con una visione globale. Di tale sviluppo è premessa indispensabile la pace nel Medio Oriente: i benefici si annunciano immensi per tutti. Un'Europa unita ed attiva, che sappia gettare sul piatto della bilancia internazionale tutte le sue risorse tecniche, produttive ed an che politiche> potrebbe dare u contributo determinante per avviare la storia su questa via; anziché su quell'altra, dell'? crisi sociali ed economiche a catena e delle guerre.

Persone citate: Anthony Eden, Churchill, Elisabetta Ii, Giorgio Vi, Kissinger