Dopo il disastro di Helsinki, la partita di Mosca fa davvero paura di Giovanni Arpino

Dopo il disastro di Helsinki, la partita di Mosca fa davvero paura Qualcuno può essere onesto? (Dal nostro inviato speciale] Mosca, 6 giugno. Bisogna pur coltivare una speranza. E forse questa è l'unica: che almeno un paio di ricchi calciatori azzurri respinga con un fermo «grazie, no» il super premio stabilito dalla Federazione per la vittoria in Finlandia. Se il gol su rigore di Chinaglia (tra i pochi incolpevoli) deve portare tre milioni nelle tasche di ogni giocatore della nazionale, non gridiamo allo scandalo in altre occasioni. Si paghi e si taccia per sempre. A Mosca, ora, dove la temperatura è ormai torrida. A Mosca, per una di quelle «battute» da parte dei nostri avversari sovietici che solo un incredibile destino potrebbe evitarci. Ai «piedi buoni» l'immarcescibile «Cu» cosa sostituirà? Il nerbo di onesti ragazzi che dovranno improvvisare una squadra? La rabbia dei Benetti e il fiuto dei Savoldi? Confessiamo che l'1 a 0 di Helsinki ci ha umiliati assai più del risultato nullo contro la Polonia in aprile. Almeno i signori Gadocha e Lato sanno di calcio, seppure in tiepida occasione di forma. Ma gli sconosciuti ragazzoni finnici sono ingenui fino all'incredibile, sbagliano persino nel trattenere palla sul gesso della linea laterale, perdendo atti mi importanti, non sanno sfruttare le punizioni dal limite, sono coraggiosi nei contrasti fisici ma vuoti nell'elaborazione minima della manovra. Con tutto questo bagaglio negativo e commovente, e non protestando per un «penalty» negatogli dall'arbitro, sono riusciti a mettere nei pasticci gli azzurri, schizofrenicamente schierati da un «Cu» che non obbedisce alla più elementare norma di buon senso. E così: dentro Cordova, ormai imbelle e sfiatato al termine di una impegnativa stagione, e di qui gli ordini perché tutti arretrino, obbedienti alle idee (o agli incubi?) di un commissario che vuole calcio totale come se fosse in salotto a parlar di football con qualche paziente zia. Giudizi violenti sono piovuti sulla schiena di giocatori smarriti, trascinati in una avventura che bisognava chiudere almeno sei mesi fa. Ma il «Cu», puntellato a oltranza dai federali anche quando superava con la sua dialettica i limiti della ragione e del rispetto umano, ha potuto far quel che voleva, persino il suo capolavoro all'incontrario. E cioè: disegnare | una squadra logica sulla carta per poi portarla alla deriva con le sbagliate pretese partorite dalla sua anguria. I finlandesi ridevano. Noi no. Anche perché vedevamo come il calcio stia inquinandosi in ogni parte del mondo. Il solitario ubriaco invasore abbattuto da Giacinto Magno, l'unica bottiglia scagliata in campo, valgono come sintomo — a parer mio — la strage e le botte della finale di Coppa Campioni a Parigi. Perché sono due estremi che suggellano un identico spettacolo. Perché il massimo spirito di ferocia scoppiato a Parigi viene bilanciato dai due sfregi allo Stadio Olimpia di Helsinki, un luogo che ha visto da sempre imprese mirabili e una sportività quasi sacrale. La ricetta del football ultimamente sfornata — gioco scarsissimo, calcioni, ubriachezza degli spettatori, violenza prima latente e poi incendiaria — poteva risparmiarci questa ennesima dimostrazione. Lo Stadio Lenin di Mosca sarà colmo fino all'ultimo gradino. Per che cosa? Per vedere le trovate alchemiche di un Bernardini che si crede l'unico interprete della moderna strategia. Per ammirare i polpaccioni di Benetti mandato al sacrificio. Per conteggiare una sconfitta «amichevole» ma pesante nel bilancic della nostra squallida annata. Naturalmente non vogliamo spingere sul tasto del pessimismo, un tasto che comunque suona da solo. Ogni partita rampolla da radici misteriose e non ci stupiremmo se nella capitale sovietica i nostri riuscissero in qualche modo a lavare la bestialità di Helsinki. Ma è lampante che ogni tipo di camarilla intorno al Club Italia va cancellato con acido solforico: si costruisca una «équipe» degna di questo mondo e di tale incarico, la si favorisca nel lavoro, non si pretenda l'impossibile, non la si distragga con utopie e non la si protegga testardamente come è accaduto sino a oggi per le gestioni di Zio Ferruccio e dell'attuale «dottore». Se la stessa Finlandia programma un «Piano Ottanta» per darsi un volto come terra adatta al calcio, cosa non dovremmo o potremmo fare noi? Un Cordova che smentisce il suo Ulisse (cioè il «Cu»). Un Antognoni di vent'anni che deve ancora mangiarne di pagnotte prima di darsi arie mentre è già subissato di elogi; qualunque foglio disposto a proteggere i giocatori casalinghi, magari imponendo in nazionale il suddetto Cordova che ha la stessa età calcistica di Rivera e Mazzola; ecco poi un Benetti cacciato dalla porta e ripreso dalla finestra con la corda del pozzo; ecco due terzini lasciati liberi di folleggiare come non facevano i due favolosi Santos del Brasile formula '58: se non è manicomio questo, dategli voi un altro appellativo. II «Cu» si è molto arrabbiato perché un tifoso stufo di tutto, gli ha gridato in faccia il solito nome di Rivera, che ormai non è più sulla carta di identità di una persona fisica, ma una sigla imperativa di dileggio e protesta a uso esterno. Ebbene, questo «Cu» non dovrebbe mai arrabbiarsi, gli si può dire di tutto, e anche il contrario di tutto, più o meno come fa lui. pover uomo che si dibatte al pari di Laocoonte tra le mille serpi delle sue bizzarrie. Stavolta però non lo salva neanche un consulto collettivo dei più grandi psicologi e chirurghi, da un redivivo Freud a Barnard: la sua sorto è segnata. Non è che, caduto il -Cu», la nazionale possa risorgere di botto d-jlle sue freddissime ceneri. Lavoro ed esperienza, ci vogliono, umiltà e dedizione da parte di tutti. Chi spiegherà a Antognoni ciò che deve fare? Chi disegnerà il tema tattico, variabile a seconda dell'avversario, anziché sognare le giostre dei cosiddetti «piedi buoni»? Ci pensino federali, tifosi e gli stessi giocatori. Soprattutto quelli che a Helsinki sono stati fischiati da spettatori di dieci o dodici anni. A Napoli si dice: non si mette una certa «cosa» in mano alle creature. Noi, a Helsinki, offrendo la nazionale del «Cu», abbiamo commesso anche questo peccato. Non basteranno dieci rosari per assolverci. Figuriamoci a Mosca. Giovanni Arpino