Le marionette di Marco Ferreri di Fernaldo Di Giammatteo

Le marionette di Marco Ferreri Le marionette di Marco Ferreri Personaggi come questi, nel cinema italiano, e difficile trovarne. Possono essere molti, uh popolo intero, come gli indiani di Non toccare la donna bianca; possono essere cinque (quattro uomini e una donna) come i protagonisti della Grande abbuffala e delYHarem. Oppure due, come le coppie della Cagna, del Seme dell'uomo, dell'Ape regina; o uno solo, come il Michel Piccoli di Dillinger è morto e il Jannacci dell'Udienza. Sembrano esseri umani, carnalmente umani, ma sono tutti fantasmi. E più s'immergono nella greve fisiologia cheli fa vivere, più si smaterializzano, evaporano, assorbiti dalle nebbie opache dell'immaginazione. Vedendo i pellirosse vittoriosi su Custer nella Parigi favolosamente trasformata in Little Big Horn, il generale di Non toccare la donna bianca s'indigna: « Questo non è previsto. Fuori. Via gli indiani dalla città ». Pare una battuta politica (la condanna del razzismo americano) ma è semplicemente l'espressione di un isterico stupore per la sopravvivenz. degli uomini in quella città colorata di rosso, sconvolta dalla demolizione delle Halles, bucherellata e rugosa come la faccia della luna. Che ci fanno gli uomini laggiù? Una domanda che Marco Ferrer' si pone da diciotto anni, da quando produce il suo cinema sgradevole. E' riuscito a cavarne echi differenti — patetici, lugubri, ironici, aspri, desolati — ma ha scoperto sempre la stessa risposta, fredda come una condanna: la presenza dell'uomo è un incidente, uno scherzo atroce della natura. Si capisce che l'abbiano maltrattato, un artista così, e che continuino a maltrattarlo, anche adesso che s'è imposto all'attenzione di mezzo mondo. Dopo ii successo di quella beffarda apologia del matrimonio cattolico-borghese che fu nel '63 L'ape regina, spettatori e critici accolsero severamente le avventure della coppia della Donna scimmia, mostro fisico lei mostro morale lui (Annie Girardot e Ugo Tognazzi, due attori straordinari in mano a Ferreri). Altrettanto fecero coi. le bislacche pretese di Carrol Baker che voleva quattro uomini da amare per poter essere libera e mal gliene incolse {L'harem), con la disputa sulla continuazione della specie che oppose l'uno all'altra i superstiti della catastrofe nucleare (27 seme dell'uomo), con il sardonico ritratto del potere che annientava il povero di spirito in attesa dell'Udienza. Sorte non dissimile, anche se meno dura, è toccata agli indiani straccioni di Toro Seduto, a Buffalo Bill, alle infermiere frementi ai capitalisti in smoking e all'uomo della Cia che scorrazzano per le vie di Parigi nel quartiere dove si stanno smantellando i vecchi mercati generali. Il morbo della goliardia insidia ancora il regista e lo induce in peccato di cattivo gusto. Nessuno glielo perdona. Non è facile perdonare chi ama i paradossi, ed è anche fastidioso starlo a sentire. Nato provocatore come uno nasce bianco e l'altro negro, pensa che la provocazione non serva a nulla. Odia il cinema, disprezza gli intellettuali che Io fanno e lo vedono (« Sono tutte piccole caste, quelli delle gallerie e dei cinema d'essai, i clan, la gente che mi sta più antipatica»). Si sente in trappola, magari vorrebbe fare la rivoluzione, ma in che modo? (« I mezzi di comunicazione sono vecchi, cose dell'età della pietra »). Prova a studiare una politica culturale (« Quello che oggi manca è tenderà attivo lo spettatore ») ma rinuncia presto, non si illude (« Cambiare il modo di vedere? Delle persone che pagano 1500 lire il biglietto? E' impossibile»), E si rassegna ad essere ovvio, come tutti i registi che parlano di se stessi: « La mia sola morale è quella di fare dei film negativi, perché servano a dieci o a venti persone. Non si possono fare che film negativi ». Odia il cinema, ma li fa. E per farli si espone, masochista e astuto, alle legnate della censura che si diverte a massacrar1!. No.i bastasse, stuzzica con sfrontata pazienza l'avversione che i commercianti di pellicola covano pei la cultura, e ottiene eh.; il Carlo Ponti produttore multinazionale prenda il suo Uomo dei cinque palloncini (durata normale: un'ora e mezzo) e lo riduca a uno sketch di venti minuti da infilare in un'antologia di sguaiatezze quasi rivoltanti. Infine, se è a corto di denaro, esibisce la sua barba taglio Solzenicyn e la sua pancia falstaffiana nei film di colleghi illustri o no, e nei suoi anche. per disegnare macchiette di imperturbabili gaglioffi. Un tempo — ecco la provocazione — esisteva l'uomo. Possedeva un corpo e un'anima, coltivava la ragione, lottava per sopravvivere, era capace di grandi imprese e di umili sacrifici. L'avevano creato (e nutrito) in tanti, l'ebraismo, la filosofia greca, il cristianesimo, la scienza, l'illuminismo, il marxismo. Oggi di lui rimangono alcuni tratti fisici (che la macchina da presa può riprodurre in due dimensioni su una pellicola), i bisogni animali (sesso, cibo), Tarn Diente di cui si crede il signore (ed è invece la prigione che lo ingabbia). Si agita sen za scopo sulla superficie di uno schermo, dentro il movimento fittizio del linguaggio cinematografico, invenzione sostitutiva che la tecnica ha partorito per simulare la vita. Scivolato lungo la china di un romanticismo sempre più affranto, questo nichilismo che ha riempito la letteratura del Novecento (da Kafka a Bcckett) comincia a dare anche in Italia, patria di fascismi incolti, qualche frutto non provinciale. Marco Ferreri è uno Antonioni un altro. Per non dire dei minori, che spesso si cullano nel sogno di improbabili palingenesi (Bertolucci, la Cavani, Bellocchio, i fratelli Taviani). Sono tutti cineasti, si noti. Non producono parole ma immagini in movimento, le quali danno l'impressione di ricreare la vita mentre non creano che se stesse. Non è un caso, naturalmente, che si comprenda la natura fi (.tizio-sostitutiva delle immagini proprio intorno agli Anni Sessanta, quando in Occidente il consumo sociale aggredisce l'uomo e ne disgrega l'essenza. I registi imparano che il realismo è una favola, che l'unica realtà adatta ai nostri anni è questo linguaggio di luci e rumori sullo schermo. L'uomo — l'uomo dell'umanesimo — muore. Con ritmi ora convulsi e scardinati ora gelidi e indifferenti, Ferreri registra minuziosamente il decesso. Non è più uomo l'ingegnere che trascorre la notte a giocare con gli oggetti di casa e con una pistola arrugginita, e la conclude ammazzando la moglie nel sonno {Dillinger è morto); non sono più uomini gli amici che si rintanano nella sontuosa villa-caverna della Grande abbuffata per suicidarsi con l'eccesso di tutto. Forse sarebbero ancora uomini i poveri indiani che fanno la festa ai cialtroni di Custer, ma non c'è scampo nemmeno per loro: li cacceranno dalla città, dalla vita, e perfino dalle immagini. Il cinema sostituisce la vi-1 ta, i fantasmi sostituiscono gli uomini. E chi può organizza i suoi affari, l'unica religione rimasta. I registi come Ferreri tessono la loro rete variopinta, ci avvolgono con cura quelle larve corpose che hanno nomi e cognomi celebri (Maicello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Catherine Deneuvc, Michel Piccoli, Philippe Noiret, Annie Girardot, Serge Reggiani, Paolo Villaggio) ma che fuori di lì non esistono, perché nessuno più esiste nella vita del mondo, e costruisco- no macchine complicate da cui |lo spettatore dovrebbe trarreinutrimento per i suoi giorni vuoti. Insomma, un esercizio Iraflinato compiuto da mario- nette e. proposto a m.rionet- Ìte. Marionette.-' La parola suo-1na un poco ammuffita, piran- |ciciliana. Non aiuta ad evocare la repulsione (e la paura) che suscitano i film di Ferreri | jPerché, nei confronti dei nichilisti suoi compagni di strada, egli ha il vantaggio di saper usare il sarcasmo. Sugli uomini morti non è necessario piangere. Fernaldo Di Giammatteo

Luoghi citati: Bcckett, Italia, Parigi