Carceri, perché cresce la violenza di Ennio Caretto

Carceri, perché cresce la violenza Visita nelle celle del penitenziario di Augusta, dopo la sanguinosa sommossa Carceri, perché cresce la violenza (Dal nostro inviato speciale) Augusta, 3 giugno. Lunedì 2 giugno, festa della Repubblica. Da alcune ore, insieme con altri giornalisti, con carabinieri, guardie e magistrati sono chiuso nell'androne del castello svevo. Dal cancello alle mie spalle, che dà sui giardini pubblici, giungono folate di calore e il brusio della folla in attesa di notizie. Al di là del portone di ferro che mi sta di fronte, e immette nel penitenziario, la sanguinosa rivolta di Giuseppe Sansone, Gianfranco Mayer, Michele Lacriola e Roberto Maurini sta per concludersi. Accanto al centralino telefonico, un appuntato, gli occhi arrossati dalla fatica, aspetta una comunicazione dall'interno 51, il terzo braccio, dove i detenuti sono asserragliati con gli ultimi due ostaggi. Manca un quarto alle 18, Oltre il portone risuona un grido: «Escono!». Una guardia apre, la seguiamo, e ci troviamo in un cortile deli- mitato dall'infermeria e dal magazzino. Incontro a noi, soffocati dagli abbracci dei commilitoni, corrono la guardia Giovanni Novella e l'appuntato Gaetano Padri. Sono gli ultimi ostaggi: i rivoltosi hanno liberato anche loro, si arrendono, chiedono soltanto la revisione dei processi e il trasferimento ad altre carceri. Vedo molti volti rigati di lacrime, i primi sorrisi dopo ventiqualtr'ore di angoscia. «Vogliono fare una dichiarazione alla stampa e alla tv — ci dice il procuratore Salvatore Astuto —. Vi aspettano nelle loro celle». Mi guardo intorno. Davanti a me c'è un altro portone di ferro, dietro, l'altissimo muro di cinta. Dai camminamenti si scorgono i fucili mitragliatori e le bombe lacrimogene dei soldati. La guardia apre di nuovo, e ci troviamo tra decine di detenuti. Ci fissano in silenzio, dispo- ' sti su due ali. Alcuni sono a | torso nudo, altri in calzonci \ ni. Si spostano per lasciarci passare. Superiamo questo secondo cortile, col laboratorio, un deposito, la biblioteca, e giungiamo a quello centrale. Mi fermo. Non scorgo un filo d'erba, è tutto pietra, dalle pareti possenti dell'edificio a due piani sporgono innumerevoli inferriate. Il castello è opera di Federico II, dicono che fosse inespugnabile. Mi assale la sensazione agghiacciante che non si possa più uscirne. Saliamo due rampe di scale, circondati da altre decine di detenuti, tra mucchi di rifiuti e in un'aria maleodorante. Sbuchiamo in un corridoio: da un lato ci sono le inferriate, dall'altra, su un duplice livello, le celle, spaventosi cubicoli di un metro e mezzo per tre, alcune nascoste da coperte e giornali. In fondo, intorno ad un tavolo, ci attendono Giuseppe Sansone, Gianfranco Mayer, Michele Lacriola e Roberto Maurini. Stanno bevendo birra e fumando, ancora sudati, ma calmi. Accanto a loro, i familiari; Giuliana Cabrini, la giovane torinese che si è offerta come ostaggio; Agreppino Costa e Michele Giglio, i due carcerati di «Lotta continua» che hanno svolto opera di mediazione. Credo che non dimenticherò mai questa conferenza stampa, coi detenuti assiepa- Ennio Caretto (Continua a pag. 2 in quarta colonna)

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