Er compromesso di Vittorio Gorresio

Er compromesso Quando Rugantino fa politica Er compromesso Anonimo romano: « Er compromesso rivoluzzionario», Ed. Garzanti, pag. 232, lire 1500. Come tutti sanno l'Anonimo romano è Maurizio Ferrara, giornalista, già direttore dclVUnilà, membro del Comitato centrale e capogruppo dei consiglieri comunisti della Regione Lazio. I£ per di più e poeta romanesco, rivelatosi anni fa con un libretto dedicato alla relazione tenuta da Kruscev al Ventesimo Congresso del pcus su « Er fallo de Stalin ». Quel l'atto, ovvero fattaccio, era raccontato in versi, istruttivamente e persuasivamente alla maniera del Cesare Pascarclla della Scoperta dell'America: nei centoquindici sonetti di questo nuovo libro il modello ispiratore appare invece Gioacchino Belli, pale-1 semente, e converrà pertanto riconoscere che le ambizioni del nostro Ferrara non sono da po-1 co. letterariamente parlando. Chi sa che un giorno, continuando a coltivare la sua vena felice, non voglia rifarsi ad Un Trilussa, che però è il meno romanesco dei poeti di Roma. Si può aspettarlo alla prova, ma a Ferrara e Belli forse il più congeniale, in quanto come lui cultore e adepto di quella che bisogna chiamare romancschilà. se si vuole indicare il carattere proprio di una certa cultura e di una certa forma di espressione che Belli appunto definiva « una favella tutta guasta e corrotta, una lingua non italiana e neppure romana, ma romanesca ». Ferrara la qualifica « tm trislilocjiiio terribile che non sopporta grammatiche e filologie (....) un brutto affare, un pasticciaccio ». che a riferirlo fedelmente può anche riuscire molto greve: le rime in «ulo». in « azzo ». e in « ercla » sono difatti le più frequentemente insistile: ma sembra che Ferrara le ritenga necessarie. Egli firma con il proprio nome la presentazione del volume, e per conto dell'Anonimo romano « chiede venia se ha ritrasmesso troppo fedelmente tutto — o quasi lutto — evo che ha ascollalo nel popolo ». Anche Belli a suo tempo si era scusato: « Non casta, non pia talvolta, sebbene divola e superstiziosa apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo e questo io ricopio ». Come è ovvio, del resto, il problema non consiste in una maggiore o minore castigatezza di eloquio: si tratta piuttosto di come Ferrara vede e rappresenta questi suoi romaneschi, ed è su questo che si deve discutere. Per una forma di passione poetico-nostalgica a lui da un lato piacerebbe che essi non avessero tralignalo dai modelli autentici da inizio di secolo decimonono, sicché li fa parlare — per esempio — di Papa Montini nello stesso modo che gli altri usavano parlando di Grcgoriaccio, mutati solo gli argomenti o i pretesti dell'antipapismo c dell'anticlericalismo da allora ad oggi. Ma d'altra parte, in forza di quella che è la sua vigile coscienza politica, moderna e comunista, egli si rende conto che con i bulli della pasta trasteverina e monticiana che già Belli conosceva, non ci sarebbe mollo da sperare per la causa del suo partito, del progresso civile collettivo, né tanto meno della «rivoluzzione». Ed è per questo che egli si ingegna, e in qualche punto si imbroglia, nel tentativo di una conciliazione evoluta, per attestare che l'immutabile popolino romanesco è diventato popolo perché si è tinto di rosso, perché da plebe è diventato classe: «Nella eredità plebea romana — ammette Ferrara nella sua acuta introduzione al libro del sedicente Anonimo romano — esiste una componente servile, come ben sanno i potenti locali che la nutrono estraendone "clientes". I protagonisti di questi sonetti sono fuori, e contro, questa componente balorda. Consola l'Anonimo romano il sapere che i discendenti del servidorame di sala hanno tralii'tato in rosso, e in mussa, una generazione dopo l'altra. Dai tempi degli stentati gruppi del la Roma giacobina e liberale che, fino a due anni prima di Porta Pia, dettero lavoro al boia, ne è passata di acqua sotto le arcale di Ponte Mollo. E dunque i popolani rossi nella Roma di oggi sono tanti, maggioritari nel cuore del centro storico e nella cintura borgalara ». Questo mi sembra il nodo politico attorno al quale si adopera e si affanna Ferrara, ma io non sono del tutto d'accordo con lui sull'influenza determinante da attribuire ai popolani rossi i quali sarebbero dei veri dei ex machina che di Roma avrebbero fallo o starebbero per fare una città mirabilmente diversa da tutte le altre del nostro tempo, italiane o straniere: secondo la visione che i popo- lani rossi discendenti da Belli ed oggi ricreali da Ferrara avrebbero di Roma, questa città non è. come le altre, una somma contraddittoria di quartieri ricchi e quartieri poveri, ma un mondo nel quale non esistono barriere che per quanto alte non possano venire scavalcate. Non ci è insomma una Roma da espugnare o conquistare come un Palazzo d'Inverno, ma soltanto una Roma da ripulire. Città anche troppo vilipesa, va a suo merito la estraneità all'angusiia municipalistica e al pettegolezzo provinciale, e vi ha piultoslo luogo un discorso aperto e largo, di cadenza colta, talora aulica, nonché una permanente disposizione a mediare sempre tutto ciò che, romano o no. è un segno del tempo. Ma è forse un segno di troppo amore, questo esaltarsi a un simile livello, come mi sembra troppo solenne l'affermazione che a Roma « lo sguardo è presbite, guarda lontano su un "tulio" sempre giudicabile dall'alto, su un "lutti" sempre visti alla pari, borghesi e proletari, ricchi e poveri». Personalmente, di Ferrara preferisco il tono bonario che gli riesce felicemente efficace là dove egli osserva che solo a Roma Stalin poteva essere ribattezzalo Baffone, amichevolmente, e Mussolini indimenticabilmente liquidato come « er Puzzone ». Analogo discorso si può fare a proposito dell'aggettivo « rivoluzzionario» del quale viene gratificato il compromesso storico proposto da Berlinguer. Soltanto a Roma — c qui seguo l'esempio di Maurizio Ferrara — può avere nome di rivoluzionaria (e | con due zeta, alla romanesca. ; perché faccia più colpo e più ! impressione) una combine politij ca che ha tult'altro sapore. Lo stesso Ferrara non intende del i resto impegnarsi molto sul pia! no dottrinario, c infatti nel sonelio che dà il titolo al libro l'ingombrante aggettivo c riferito come semplice trovala polemica al termine di una lite in osteria, dove il difensore di Berlinguer si trova in minoranza: « Finché ò sbollato e a sto' catilinario I l'ù fallo: "però er mio. porca mignotta, è un compromesso rivoluzzionario" ». Prendiamolo quindi per quello che è. che non necessariamente significa prenderlo per buono, e per buoni leniamoci invece i 115 piacevolissimi sonetti. Vittorio Gorresio I romani del l'incili