Snobismo di registi di Dacia Maraini

Snobismo di registi Snobismo di registi Nel nuovo «teatro in cari-1 tina » la prevalenza dell'immagine sulla paiola, dei gesti sulle idee porta necessariamente alla prevalenza del regista - pittore - organizzatore - coreografo sull'autore. Il regista, artigiano delle cose più che delle parole, facitore di oggetti più che di idee, si appresta a diventare il padrone assoluto, il divo. Perfino Dario Fo che da anni fa teatro politico ne viene contagiato. Fra lui e gli altri grandi «artisti» dello spettacolo come Carmelo Bene, Strchler, Ronconi, Ricci non c'è molta differenza. Parla male di tutti, disprezza apertamente i gruppi che non fanno capo a lui, di cui d'altronde ignora i prodotti perché non va mai a vedere il lavoro altrui. Lancia condanne contro tutti gettando via allegramente le fatiche di anni con poche parole altezzose. E' un sistema che funziona. Carmelo Bene fa lo stesso. Dice pubblicamente che lui è il solo a fare del vero teatro, che tutti gli altri sono delle merde, degli ignoranti, degli opportunisti, degli imitatori. Fatta piazza pulita in questo modo drastico, il solo a rimanere in piedi è lui, malinconico, sorridente, amaro, ritto sotto la luce a cono del più grosso riflettore. Questo divismo non è casuale. E' il risultato di un certo modo di intendere il teatro, il risultato di un congelamento del lavoro collettivo. Ritroviamo in teatro una tendenza generale del costume italiano che nasce da un cattivo rapporto con il sociale, da una esasperazione dei valori individuali, da uno scarsissimo senso civico, da una profonda sfiducia in una cultura che non sia di élite. In teatro, come negli altri mestieri, si vive all'insegna del personalismo e della guerra fra bande. Ognuno è solo contro tutti. Non ci sono alleanze, solidarietà, vita in comune. Il disprezzo per gli altri è la prima regola, l'ignoranza del lavoro altrui una tranquilla abitudine, tanto che ognuno si illude ogni volta di ricominciare da zero, quasi che la storia del teatro italiano cominciasse da lui e solo da lui. ★ ★ Succede pressappoco come nei gruppi extraparlamentari: i peggiori nemici non sono i ricchi, i fascisti, i padroni, i profittatori, ma coloro che, pur tendendo verso le stesse mete, non conducono la battaglia nella stessa maniera. Così in teatro, i peggiori nemici non sono quelli che fanno spettacoli commerciali, quelli che si prendono i soldi dello Stato per fare operazioni reazionarie, no, ma quelli che portano avanti un discorso politico un poco più politico o meno politico di quello scelto dal gruppo tale, o quelli che fanno un teatro sperimentale un poco più terroristico o meno terroristico di quello del gruppo talaltro. In questa guerra che mette gli uni contro gli altri, chi rimane sconcertato e disorientato è il pubblico che non capisce più come pensarla: avranno ragione i formalisti arrabbiati che credono solo nella rivoluzbne del linguaggio? e cosa pensare di Carmelo Bene che dichiara di essere il solo a compiere questa rivoluzione mentre gli altri sono dei volgari imitatori? E se invece avessero ragione quelli che portano avanti il teatro politico? ma a sentire Dario Fo sono tutti dei buffoni e degli incompetenti, allora? Nel dubbio viene favorito il divismo. L'incertezza estetica spinge a puntare sui nomi. I registi lo sanno e si mettono in mostra. E allora? che fare? dobbiamo stare a guardare il teatro che torna a sprofondare nel grigiore del sonno conformista applaudendo solo ogni tanto all'apparire di un pallido e aggraziato fiore di serra? Alcune cose si potrebbero fare. Primo: discutere l'autoritarismo tirannico dei registi che sono diventati oggi i padroni del teatro, che hanno finito con l'escludere ogni possibilità di collaborazione collettiva, che saccheggiano e manipolano i classici in modo spesso velleitario e offensivo, fuggendo come la peste ogni riferimento ai fatti attuali. A questo punto verrebbe voglia di chiedersi come mai gli attori, che fanno le spese di questo autoritarismo, non si ribellino ai loro registi. La ragione è semplice. Ogni attore conta in cuor suo di diventare un giorno regista anche lui, e così mettere a stecchetto altri attori più giovani e più inesperti di lui, con rigore tirannico e superbia luciferina. E gli autori? perché gli autori non si ribellano? Gli au- tori in realtà sono le vittime più disgraziate di questo stato di gestione dittatoriale, perché mentre degli attori alla fin fine nessun regista può fare a meno, come non può fare a meno dei tecnici, degli scenografi, dei costumisti, degli elcttricisti, degli autori sì, può farne a meno. E così gli autori si sono ridotti a fare i mendicanti, girando da una compagnia all'altra alla ricerca di un poco di attenzione da parte di registi potenti, indaffarati e paternalistici. Si sono sentiti ripetere talmente tante volte che l'autore non esiste che se ne sono convinti perfettamente. * * Infatti i nostri prestigiosi registi sono diventati bravissimi nel cucire e ricucire i testi di autori classici o anche contemporanei, purché siano morti oppure abitino in terre lontanissime, irraggiungibili. So già cosa mi risponderanno alcuni critici: che queste sono distinzioni sciocche e superate, che il teatro non è più fatto di autori, di registi, di attori eccetera, che non ci sono più distinzioni fra pittura, letteratura, pantomima, musica, prosa, tutte cose che fanno parte di una unica creazione che possiamo anche chiamare teatro, ma anche happening, o accadimento scenico, o evento figurativo, poiché questo è il solo modo di fare teatro oggi; un teatro che nasce sulle ceneri delle ideologie (consumate), della parola (morta), della verosimiglianza (persa), della psicologia (svuotata di ogni senso), dell'imitazione dal vero (non riconoscibile). Il risultato è che il nostro teatro si occupa di tutto fuorché delle cose a noi vicine, di quelle realtà brucianti e sotterranee che solo la parola riesce a portare alla luce, di quei nessi logici che solo una consapevolezza politica riesce a rendere leggibili, di quell'intelligenza del reale che solo il riconoscimento della razionalità può fare vivere di vita propria. D'altronde basta guardare un momento quello che succede nei Paesi di grande civiltà teatrale come l'Inghilterra, o la Francia. In questi Paesi il teatro è tenuto in vita da centinaia di « rapporti », di « inchieste », di « testimonianze », di « interventi » sulla realtà del Paese. I registi prestigiosi ci sono, ma non pretendono che il teatro cominci e finisca con loro. Né dirigono i festival, né conducono le Stabili, né portano avanti le più grosse compagnie a spese pubbliche come succede da noi. Si tratta di una dittatura vera e propria. Una dittatura che il teatro italiano paga con l'astrazione, il formalismo, la paura della realtà, l'estetismo, la presunzione e una generale atmosfera di distacco dai fatti sociali. Dacia Maraini

Persone citate: Carmelo Bene, Dario Fo, Ricci, Ronconi

Luoghi citati: Francia, Inghilterra