Quelli che uccidono e gli altri in doppiopetto di Andrea Barbato

Quelli che uccidono e gli altri in doppiopetto Quelli che uccidono e gli altri in doppiopetto (Nostro servizio particolare) Milano, 28 maggio. «Sono neri», dice il funzionario della questura milanese. «Gente di destra, li conosciamo bene», aggiunge un altro. «Sono imputati d'un reato comune, ma nel fondo c'è la distorsione d'una ideologia politica», concede il magistrato. Li hanno sentiti gridare: «Non metterete più piede in San Babila». Hanno colpito, forse, perché hanno visto strappare un lembo d'un manifesto elettorale del msi. Gli assassini di via Mascagni, i pugna- j " latori di Alberto Brasili, sono fascisti, ragazzi sotto i vent'anni, le uhimc matricole di quella «Università dello squadrismo» che è il quadrilatero centrale, il cuore nero di Milano. In questa città, si respira di nuovo aria avvelenata. Ci vogliono ore e ore d'attesa, fra le pareti verde oliva del terzo piano della questura, per ricostruire una scheda sommaria di quest'ultima impresa del terrorismo nero. Funzionari dell'ufficio politico, magistrati che hanno negli occhi una nottata di interrogatori, genitori affranti e increduli, avvocati scettici, che sanno appena il nome del loro cliente e sono stati convocati d'ufficio nelle ore buie... 11 quadro prende forma lentamente: le retate, gli interrogatori a catena, le bugie, l'alibi che non regge, i nomi che vengono fuori, la confessione di uno dei cinque, l'arresto. Ora abbiamo fra le mani cinque biografie, brevi come la vita dei ragazzi cui appartengono. Disegnano un gruppo di giovani tutti «per bene», piccola e media borghesia, famiglie quiete e ignare, vicini stupefatti. E tanti sintomi, nella vita di ciascuno, che la gente, i loro stessi genitori, avevano tollerato o sottovalutato: Antonio Bega, figlio di gente che lavora davvero, ma con le sue smanie, la sua incapacità di studiare, l'esibizionismo, le esperienze nel Fronte della gioventù e nel Mar di Fumagalli. E gli altri, quelli che negano: Enrico Caruso, taciturno e tiratardi, che voleva arruolarsi nei paracadutisti; Giorgio Nicolosi, famiglia agiata nei tessuti, idee estremistiche di destra; Pietro Croce, figlio di un professionista, che studia di giorno e la sera frequenta i bar di San Babila; e Giovanni Sciavicco, in lite da tempo con i suoi, sbandato e incerto. Non sono certo schede criminali: ma in molte di queste case, spesso c'era da tempo la polizia, qualcuno era seguito, controllato dalla «politica». E i familiari, borghesi distratti e inconsapevoli, oggi non sanno darsi pace, non capiscono. E' il dato più sconvolgente, anche se non e nuovo. Una Milano sotterranea, di ragazzi ignoti anche ai loro padri, quieti condomini di periferia, dormitori borghesi senza storia, che allevano terrorismo, rancore sociale e forse (lo dirà la giustizia) assassini a colpi di pugnale. E' una milizia che ha per sola ideologia la violenza, il culto della forza, il disordine. 1 capi veri, gli ispiratori, i finanziatori, i maestri del terrorismo, continuano a nascondersi, a rinnegare, a prendere le distanze. San Babila, si dice a Milano, non esiste più come covo nero: è solo un luogo comune, una pigrizia di cronisti. E poi, a guardare la mappa del delitto nero, si vede che è vero, ma solo in parte. I «sanbabilini» si sono spostati dai portici di quella piazza, ma non hanno fatto molta strada. Verso i bar di piazza Cavour, verso piazza Cinque Giornate, verso piazza Tricolore e i viali. Via Mascagni, dove è stato ucciso il povero Brasili, è a due passi da San Babila. E quel che conta, è una geografia mentale; e quella non è cambiata, anche se San Babila è stata in parte ripulita, se la sede del msi s'è spostata, se gli agenti presidiano i portici. Restano i «sanbabilini», impasto di teppismo e di squadrismo, gagliardetti e motociclette, pugnali e giacche di pelle. Se ne è uscito il magistrato, slamane, a dire che Brasili e la sua ragazza avevano un «abbigliamento da sinistrorsi». ztuitpcnlaCdi pcMleasl'cCadvEpptleccdalttpsnfrgftsadttdnqdpualacioè non erano in divisa da iriili-1 " ziani neri, erano vestiti come tutti. Allora, non è vero che gli italiani sono tutti uguali, c'è chi porla l'uniforme c da quella riconosce i suoi camerati, nel pieno centro di Milano. Milano: onesta, certamente, laboriosa, sdegnata, commossa. Con i suoi operai che, se scendono in piazza, mettono in fuga i neri. Con il suo sindaco che ripete che qui «sì vive meglio», e come sindaco ha anche ragione. Ma poi torna la paura, tornano le stragi, gli omicidi. Le bombe alla Fiera, piazza Fontana, la strage di via Fatebenefratelli, l'agente Marino, le parate dei caporioni neofascisti, il grido di Ciccio Franco {«Aquila, Reggio, a Milano sarà peggio!») e Claudio Varalli assassinalo a revolverale. Perché ancora a Milano? E la risposta è sempre la stessa: perché è lo specchio d'Italia, perché se si spaventa questa città, si spaventano le altre, tutte le altre. Lo spirilo nero di San Babila è tutt'altro che morto. Anzi, si fa più feroce, disperato. Per l'are un legionario, basta un pizzico di benessere non guadagnato, sottocultura politica, qualche «capo» mascheralo nel suo doppiopetto, una moto, un'arma. Il nemico è quello che ha un giornale in tasca, o magari i capelli lunghi. Ora, i figli di papà, i «fascisti per bene», ammazzano. Le scritte, i pestaggi, non bastano più. Viene da qui, da San Babila, quel Gianni Nardi, bombardiere, rampollo della maggioranza silenziosa, sempre circondato da buoni avvocati per cavarlo d'impaccio, e viene da qui Vittorio Loi, bei vestiti, muscoli sempre tesi, fino al giorno in cui lo pescano con la bomba che uccide il povero agcnle Marino. E Maurizio Murelli, «Giovane Italia» e msi; e Antonio Braggion, che dopo aver ucciso Varalli in piazza Cavour riesce a scappare. E ricomincia il disconoscimen¬ to, il rifiuto delle responsabilità. Il senatore Gastone Ncncioni rinuncia al comizio di domani in piazza degli Affari, «per non turbare l'ordine pubblico». Nell'aprile del 73, con Ncncioni c'erano Scrvello, La Russa e Ciccio Franco a dire che Loi e Murelli non erano «dei loro», erano dei drogali, dei provocatori. E Loi aveva detto al magistrato: «I capi del msi ci usano e poi ci scaricano quando diventiamo scomodi...». Nel cortile della questura (il selcialo, il busto di Calabresi) urlano le sirene che portano i cinque a San Vittore. Stavolta li hanno presi subito, indagini e processi diranno se sono loro, tutti loro. La Milano che si svuota per il «ponte» impreca e sbigottisce per quest'altra Milano nera, funerea, che si porta in seno. Qualcuno teme reazioni, vendette, cortei «duri». Ma i più sanno che il pericolo è nero: si può morire senza ragione, perché si passa nella strada sbagliala, o si sfiora un adesivo fascista. Le pattuglie non bastano più. le condanne non scoraggiano. Nella Milano silenziosa, nascono e crescono i figli «neri», che la notte possono tardare a rientrare senza che nessuno si chieda perché, che non studiano, non lavorano, senza che nessuno si preoccupi. Li accoglie la scuola di San Babila. li allevano capi astuti, che vogliono impedire a Milano, e anche all'Italia, di vivere c di votare serenamente. Andrea Barbato