Il voto cambierà qualcosa? di Vittorio Gorresio

Il voto cambierà qualcosa? Taccuino di Vittorio Gorresio Tre settimane ancora, e noi saremo finalmente arrivati alle elezioni, domenica 15 giugno festa di San Vito. Voteremo anche lunedi 16. giorno di Sant'Aureliano, e poi staremo ad aspettare con tranquilla coscienza i risultati: tanto più tranquilla — la coscienza — perché quei risultati non turberanno proprio niente, a quello che prevedo. Sono trent'anni che facciamo elezioni e non è mai eambiato nulla, come diretta conseguenza dei nostri voti. C'è da una parte una certa vischiosità dell'elettorato il quale diflicilmente si sposta, e comunque dall'altra incombe una legge che si chiama proporzionale, in virtù della quale è difficile che alle relative variazioni dei suffragi — quelle che si possono ragionevolmente attendere di volta in volta — corrispondano grandi cambiamenti nel reggimento della vita politica. Che cosa difatti è avvenuto nel corso di questi ultimi trent'anni di esperienze politiche italiane? Essenzialmente, due cose: che dalla monarchia siamo passati alla repubblica il 2 giugno del 1946. e che abbiamo ottenuto il diritto a conservare la legge sul divorzio, il 12 maggio 1974. Questo è accaduto in forza di due referendum, e cioè solo quando i cittadini sono stati messi di fronte ad una semplice alternativa elementare, ad una scelta fra un sì ed un no che a tutti noi riusciva facilmente comprensibile. Tutte le altre volte, viceversa, ci siamo dovuti comportare come se usassimo il misurino del farmacista, prendendo un atteggiamento che ritenevamo prudente ma che in sostanza era ambiguo. Non ci è congeniale la disposizione a rovesciare le cose, anche se siamo tutti più o meno d'accordo sul fatto che le cose vanno male. Al punto di decidere, generalmente ci trattiene la considerazione di un « sì, ma », per il umore espresso o inconfessato che queste famose « cose » potrebbero andare anche peggio. Teniamoci quindi il colera, perché ci potrebbe minacciare la peste, e chi sa mai che risultati trarremmo dai cosiddetti salti nel buio. Per quanto possono capirci, gli stranieri ci ammirano, per quella indubbia nostra capacità di convivere con i malanni nostri tradizionali, sempre adeguandoci ai nostri difetti e ricavandone magari un profitto. « Voi siete straordinariamente ingegnosi», mi diceva l'altro giorno un collega giornalista spagnolo, uomo di un Paese dove sembrano accettabili soltanto le soluzioni estreme. Un altro collega forestiero, venuto dall'Olanda per un'inchiesta sul nostro Paese, mi ha confessato candidamente: « Da noi, se fossimo nella vostra condizione, chi sa che rivoluzione faremmo ». Forse egli pensava ai suoi gueux del secolo decimoscttimo come lo spagnolo aveva presente la grande guerra civile del suo Paese nel 1936 o la più recente rivolta dei baschi. E se avessi incontra¬ lo un irlandese, probabilmente mi sarei sentilo dire cose più dui e: ma non mi sembra che mi sarebbe mancata la possibilità di una giusta risposta. Siamo un paese tranquillo, senza forti passioni. Venerdì scorso, alle dicci di sera ero davanti al televisore per la prima puntata della « Tribuna elettorale » a cui partecipavano i rappresentanti di sette parliti, dal missino al democratico proletario. Non dico che l'ossero tulli amici, ma mi sembravano lutti d'accordo: che civiltà. Potevo dolermi che nessuno di loro presentasse o esibisse un programma politico concreto, visto che Alfredo Covelli (msi-dn) e Luigi Pintor (comunista sedicente extraparlamentare) sostanzialmente si accomunavano nell'esaltazione degli uguali concetti di libertà e democrazia. Covelli a un eerto punto si lece un merito per essere i monarchici confluiti nelle schiere dei repubblichini, dopo che si erano fieramente combattuti da opposte trincee durante il biennio 19431945, ed ebbi allora la sensazione che in Italia è inutile anche spararci od esserci sparati: ci conosciamo tulli, come diceva lo scenico Mario Missiroli al tempo che l'Italia pareva a Croce divisa in due. Se non è bastata quella guerra a contrapporci frontalmente, davvero, figurarsi se lo faremo nelle elezioni regionali, provinciali c comunali del prossimo 15 giugno. Mi sembra che abbia ragione Fanfani, l'uomo più antipaiico d'Italia, a pensare fin d'ora che non accadrà niente, o tutto al più una crisi di governo. Moro darà le dimissioni, ma ci sarà inevitabilmente un altro democristiano pronto a prenderne il posto: e — in conseguenza — che cosa mai potrà accadere? Niente, mi sembra di potere onestamente presagire. Il voto cambierà qualcosa?

Persone citate: Alfredo Covelli, Covelli, Fanfani, Luigi Pintor, Mario Missiroli

Luoghi citati: Italia, Olanda