Vivere con il "diverso,, di Mirella Appiotti

Vivere con il "diverso,, L'handicappato è solo, ma qualcosa nell'assistenza cambia Vivere con il "diverso,, Pur tra ritardi e rinunce, la società sta imparando ad accettare e curare i cerebrolesi I superuomini non interessano più, anzi che noia. Crolla il vecchio mito dello splendore fisico, la ragazza brutta è quella che piace, lo spettacolo che più amiamo è l'orrido e solo le nostre cattiverie pare ci consolino. Allora, andiamo sulla collina di Torino, due magnifiche ville al Mainerò, dove la Provincia spende quasi cinquantamila lire al giorno per ognuno dei cinquantasci cerebrolesi gravi ospitati in nove alloggi-famiglia. C'è Adriano. E' grosso, buono e violento. Un grembiulonc blu a quadri bianchi è ciò che ha portato con sé dal manicomio. Non accetterebbe mai di alzarsi dal letto al mattino e cominciare la sua giornata affannosa senza questa divisa grottesca. « La sola cosa che ama, l'unico interesse al quale possiamo riferirci è l'acquaio, la cucina, lavare ì piatti. Un condizionamento totale ». Adriano non parla. Si esprime con un codice-complicità che continuamente inventa e che i suoi assistenti acchiappano al volo e ogni volta trasformano in strumento di gioco e di terapia, in un perenne stato di impotenza e di dolore. Al Mainerò, il ragazzo potrà scatenare le sue angosce ancora per poco. Ha 16 anni, già due di troppo per restarci, né può essere rimandato in famiglia perché i suoi non danno garanzie e perché ormai le sue inquietudini non possono essere placate. Inutile cercare un centro capace di ospitarlo. Non c'è. C'è solo il manicomio. Dove, disperatamente, non si vuole che torni. Andiamo anche a Bologna, al Centro di Addestramento professionale di piazza Trento e Trieste. Raffaele ha 17 anni, è un magnifico adolescente bruno, ha vegetato per dodici anni in clinica psichiatrica. Tolto dall'isolamento, ridato alla famiglia, con l'aiuto degli operatori sociali della scuola e del suo quartiere, ha avuto una certa ripresa. Adesso Raffaele è autonomo, sorride, si innamora. Ma che speranze ha? Vincenzo ha avuto un colpo di fortuna, come ogni tanto capita anche ai perseguitati: a tre anni era considerato un « bambino da buttare », è finito in manicomio, poi ci si è accorti che la diagnosi era sbagliata, è stato in parte recuperato. Per Maura, nessuna buona stella: la segregazione l'ha segnata; è un essere impenetrabile e ululante che sprofonda sempre più nell'oscurità. Nel cassetto del Parlamento, le proposte di legge per riparare questi tragici guasti ci sono. Su quattro, tre arrivano dai maggiori partiti, de, psi, pei. L'impostazione del problema è abbastanza unitaria. Cambia il concetto di assistenza, è finita con il paternalismo, la sicurezza sociale è un preciso diritto di ciascuno, dovrà essere gestita dagli enti pubblici, Regioni e Comuni, insieme con i cittadini. Punto di arrivo sarà l'unità locale socio-sanitaria, l'insieme di tutti i servizi pensati per la persona nel suo complesso, lavorando in particolare alla prevenzione con il criterio della interdisciplinarictà su un territorio ben delimitato. A poco a poco dovranno scomparire gli Enti nazionali, appaltatori, sappiamo come vigili, della salute pubblica e quindi, quanto è possibile, i ricoveri, i ghetti che hanno reso sempre più diversi i diversi. Tra lutto questo la vera conquista, il gesto più civile di una società che ormai ha bisogno di scaricare una parte delle proprie colpe, non è tanto nel cumulo dei supporti c dei diritti, ma nei doveri che vengono attribuiti all'handicappato. Si pretende che impari a vivere con gli altri, entro i suoi limiti e oltre i suoi limiti, con un lavoro non certo senza dolore. Forse è la prima volta che al diverso viene offerto un ruolo. In qualche modo egli conta, esiste. La legge, c'è sulla carta, però non passa. Le proposte dei tre partiti non hanno tra loro differenze sostanziali. L'accordo, qui come altrove, potrebbe essere raggiunto se esistesse una volontà politica. Lo dice Francesco Santancra che con la sua « Unione italiana per la lotta contro l'emarginazione sociale » e soprattutto con la sua capacità di combattere, è uno degli uomini di punta, non solo a Torino o in Piemonte, nella battaglia contro la società che « non cambia ». Invece qualcosa cambia. Magari il cinismo ha un altro volto. Però, il mongoloide esposto un paio d'anni fa alla Biennale di Venezia con la polizia che arriva e i buoni che come vergini fuori moda arrossiscono, probabilmente non sarebbe più possibile. Sarà per intiepidire un freddo troppo profondo, per dare pace a tutte le incredulità deluse, con il mongoloide — ci si chiede oggi — perché non provare a vivere? Allora, qualcosa dovrà essere fatto. Lo ammettono anche gli amministratori pubblici, i quali sanno che l'attesa delle riforme, sanitaria e assistenziale, non può creare per gli enti locali un alibi totale all'inefficienza. C'è la legge 16 maggio 1970, n. 281 che dà ruolo di protagonista e ampie responsabilità alle Regioni a statuto ordinario. A partire dal 1° aprile '72 esse sono state legittimate a legiferare. Tre anni, come si è lavorato? La Regione Piemonte ha emesso tre leggi: sugli asili nido, in fase di esecuzione; per l'assistenza domiciliare agli an¬ ziani, settoriale quanto si vuole ma, viste certe urgenze benemerite, in materia di assistenza scolastica, con risultati mollo burrascosi. Si è poi arenata contro Io scoglio degli Enti nazionali la cui soppressione può avvenire soltanto con un provvedimento legislativo dello Stato. L'opinione di Anna Maria Viotti, assessore alla sicurezza sociale e che « attribuire ai Comuni da parte della Regione competenze oggi svolte da questi Enti, potrebbe determinare ulteriori contrapposizioni e sovrapposizioni di compiti senza una razionale utilizzazione del personale e dei fondi. La Regione ha incentivato quei servizi, come l'assistenza domici¬ liare agli anziani, che sono nuovi e dovranno essere fondamentali nella futura unità locale ». Almeno nella divisione del territorio, punto di partenza per qualsiasi programmazione dei servizi socio-sanitari, alcune Regioni hanno già operato: la Lombardia per la parte sanitaria; in maniera globale Umbria, Toscana, Emilia-Romagna, sempre che sono impegnate ad essere le prime della classe. « Gli interventi di queste Regioni — . ribatte l'assessore Victti — possono avere un significalo esclusivamente promozionale che è certo importante ma che può determinare i rischi ricordati prima. Inve¬ ce, in preparazione dei compiti conseguenti all'approvazione della legge cornice, la Giunta regionale piemontese su proposta dell'assessore alla Sanità, ha approvato la "zonizzazione sanitaria" che dovrà coincidere con quella dei servizi sociali ». Approvata e subito dimenticata. Dovrà tornare in Giunta dopo il 15 giugno. Con tutto o quasi da rifare. L'Umbria non ha più di questi problemi. La sua legge 14 novembre '74 è considerala la migliore sinora varata dalle Regioni italiane. Diviso il territorio, ha affidato ai Comuni o a consorzi di Comuni la gestione della futura unità locale, la conduzione avverrà con larga partecipazione democratica. Anzi, avviene, perché la prima « unità » funziona a Foligno. La Toscana, con la legge 20 agosto '74, ha lasciato le Province come interlocutore in più, oltre alle Regioni e ai Comuni: per questo è oggetto di critiche. L'Emilia-Romagna ha legiferato da tre anni sulla costituzione di consorzi socio sanitari. La Regione Veneto ha approvato anch'essa, il 22 aprile scorso all'ultimo minuto, una legge analoga. Senza volere dividere i buoni dai cattivi, nel sud (dove esiste la più alta percentuale di gente ancora sepolta negli ospizi) mentre la regione Campania comincia adesso a muoversi e la Puglia pare la più sensibile al problema, c'è un Molise che, nel '72, ha tranquillamente approvato un provvedimento borbonico che garantisce il totale mantenimento degli istituti e dà autocratici poteri alla Regione. L'esistenza o meno di avanzate leggi regionali, rende, come si vedrà, estremamente differenziato il lavoro dei Comuni, soprattutto in tema di prevenzione e di inserimento nella scuola. Il che vale anche per le Province e quali, nei futuri servizi, dovrebbero uscire di scena, ma per ora hanno vaste competenze in materia di handicappati psichici, tra l'altro la gestione di csperimenti nuovi come le comunità-alloggio o quella, ormai tradizionale, dei Centri di avviamento professionale e di lavoro protetto. Tutti parecchio contestati. « E con ragione » dice Adriano Obert, direttore del Centro di corso Toscana, il primo in ordine di tempo dei sette in funzione tra Torino e la cinI tura, Pinerolo e Torre Pellice. I Dopo nove anni di attività ha un voluminoso dossier di casiimite, di pseudo-malati riportati fortunosamente nel mondo, di battaglie quotidiane per ottenere ciò che manca, all'interno del suo gruppo ma, soprattutto, fuori: il posto di lavoro per chi può affrontare una normale vita di fabbrica; una attenzione generale meno distratta verso l'handicappato. D'accordo con lo psicologo, Obert accusa tutta una cultura in cui il valore dell'attività intellettuale è ancora primario e in cui non si accettano come eguali e possibili compagni di strada coloro che hanno altre I e diverse capacità. « Non solo bisogna imparare a vivere con il diverso, ma anche arrendersi all'idea che, nel reciproco rapporto, non siamo noi a dare di più. Chi totalmente si dona è lui. Non è poesia, ma il risultalo di nove anni passati tra queste mura grigie in cui vorrei che nessuno dei miei ragazzi dovesse più vivere ». Mirella Appiotti

Persone citate: Adriano Obert, Anna Maria Viotti, Francesco Santancra, Obert