I peccati di Cannes

I peccati di Cannes Cinema raffinato (inutile) dalla Polonia I peccati di Cannes "La storia di un peccato", di Borowczk - "Non senti abbaiare i cani?" di Reichenbach: documentario sui due volti del Messico (Dal nostro inviato speciale) Cannes. 20 maggio. Declinando stancamente verso le ultime battute il Festival ha presentato insieme Polonia e Messico. Della prima si è visto un film il cui titolo «La storia di un peccato» si potrebbe maliziosamente ritorcere contro il film stesso, che è appunto sembrato un peccato d'incontinenza «feuilletonistica» e allo stesso tempo di accuratezza formale. Opera del cinquantaduenne regista Walerian Borowczk, ispiratosi a un romanzo di Stefan Zeromski ambientato nel primo Novecento narra la storia all'ingiù, fino all'ultimo scalino con guizzo finale di redenzione, d'una giovane borghese di Varsavia condizionata dall'educazione cattolica a prendere una terribile cotta per il primo cattivo soggetto che le capitasse. Costui, Luckas, le dà per certo che la sposerà, non appena ottenuto il divorzio dalla moglie; e invece, quando finalmente sarà libero, sposerà una donna ricca. La povera Eva che frattanto gli ha concesso tutto quello che si può, è rimasta incinta, e come Margherita del «Faust» ha soppresso la creaturina, a questo punto rompe ogni ritegno di borghese e viene alle mani di un prosseneta e ladro che l'adopera, insieme coi suoi complici, come civetta in imprese delittuose. Ma quando la vittima (che sarebbe la seconda) s'annunzia nella persona del fedifrago Luckas, l'antico amore ha ancora tanta forza da indurre Eva a salvare la vita di lui col sacrificio della propria. Così «un bel morir tutta la vita onora», come avviene spesso alle eroine dei melodrammi che hanno toccato il fondo. Il I film di Borowczk, che non è più in età di emendarsi facilmente, è rigirato secondo quello spirito accademico che caratterizza spesso il cinema dell'Est (accademici sono anche i pezzi d'erotismo generosamente sparsi). Bello e anzi bellissimo all'occhio, per la squisitezza dei particolari d'epoca e d'ambiente, riesce piuttosto inutile all'avida curiosità dello spettatore moderno che chiede al cinema di vedere ripercossi o almeno accennati i problemi che lo affliggono. Qui, se si leva un troppo generico processo alla comprimente società borghese del trono e dell'altare, non si vedono appigli ideologici che in mancanza d'altro possano far digerire la lunga e avviluppatissima storia di Eva (Grazyna Dlugolecka), alla quale del resto lo stesso regista col suo insistito formalismo sembra essersi disinteressato per il primo. Forte di un illustre passato di documentarista, egli ha adornato di finissime suppellettili un dramma lontano e ormai poco credibile, rendendolo cosi anche più distante e freddo. L'altro film, «Non senti abbaiare i cani?», tratto da un racconto di Juan Rulfo, è messicano soltanto di bandiera. Il suo autore è Francois Reichenbach, uno degli «occhi» più illustri, acuti e scattanti del cinema francese scrutante le realtà etniche. Difatto, il film è un documentario sul Messico visto da un europeo colto cui sovrabbondano i modelli; ma un documentario di specie poetizzata, che è quanto dire un «genere» non privo d'inconvenienti rispetto alla chiarezza del risultato. Le parti si possono fare così: avvincono nel ritmo e nel colore le visioni dirette di un Messico in parte ancora primitivo e in parte industrializzato: da un lato il senso religioso della vita, il pensiero incombente della morte simboleggiato dal Cristo in croce («Golgota senza resurrezione»), come disse Emilio Cecchi) e la curiosità delle ragioni ultime; dall'altro grattacieli, supermercati, consumismo, disoccupazione ecc. Persuade meno, invece, la «parabola» che nelle intenzioni strutturali del regista-reporter dovrebbe ricollegare il tutto e dare unità poetica a quei due volti dello stesso Messico. Vediamo così il buon Juan, messicano arcaico, col suo figlioletto malato sulle spalle, andare di villaggio in villaggio alla ricerca di un introvabile medico, e strada facendo fornire una quantità di risposte esemplari alle domande altrettanto esemplari del piccino; domande e risposte che costituiscono l'illustrazione del Messico più autentico. L'altro, il Messico fasullo, esce dalle intercalate esperienze di un giovinotto (che è lo stesso bambino quale sarebbe poi cresciuto se non fosse morto) che dura fatica a inserirsi in quel bailamme consumistico-pubblicitario e a trovarvi lavoro meno precario che non sia quello di pulitore di vetri o peggio. Questo Ignazio, in cui il padre versò inutilmente la sua saggezza, è la vittima diretta del «nuovo corso»; camu che a un certo punto, con passag- gio più esaltante che chiaro, la sua immagine s'identifica con quella stessa del Cristo morto, menato a processione. Sono lambiccature che guastano ma non distruggono quello che di valido, se non di nuovo, Reichenblach ha saputo leggere nel libro cinematograficamente sempre aperto della realtà etnica e morale del popolo messicano. Leo Pestelli