Gli ultimi giorni di Saigon di Ennio Caretto

Gli ultimi giorni di Saigon PRIMO BILANCIO DOPO LA CADUTA DEL SUD VIETNAM Gli ultimi giorni di Saigon L'agonia della capitale si è consumata nell'orrore e nell'angoscia, dietro la finzione d'una febbrile normalità - All'avvicinarsi del nemico si sono spezzate le ultime barriere civili: era la legge della giungla, con qualche esempio di fermezza e pietà (Dal nostro inviato speciale) Bangkok, maggio. Da due settimane, il SudVietnam è in mano comunista. Le notizie che ci giungono sono poche ma rassicuranti. Dicono che ogni resistenza alle truppe vietcong e nordvietnamite è terminata, che non vi sono stati né vi saranno bagni di sangue. Precisano che il governo rivoluzionario provvisorio è impegnato nella ricostruzione e riconciliazione del Paese, che ha chiesto l'appoggio della « terza forza » neutralista per un referendum e le elezioni. Saigon viene descritta come una città moralmente purificata e materialmente ripulita, in procinto di cogliere i frutti della pace e dell'ordine. Sono immagini in contrasto con il terrore della guerra che per trent'anni ha distrutto il Sudvietnam. Per me, e credo per altri giornalisti che hanno vissuto la tragedia finale di Saigon, c'è in esse qualcosa di irreale. E' come se, il 30 aprile, la storia sia stata cancellata, col suo carico di odi e di paure, di rivalità e di equivoci, e miracolosamente sia rifiorito un mondo nuovo. Il Paese e la città che ricordiamo erano in sfacelo, senza più fede né assistenza, simili a condannati nella cella della morte. L'agonia dell'uomo è spesso dolorosa e indegna. Ma quella dei regimi superati dai fatti e dalle idee è traumatica e umiliante. Essa coinvolge generazioni intere, masse di innocenti, non distingue il bene dal male, non assegna responsabilità. Nella sua coerenza, è crudele e ingiusta. Gli ultimi giorni di aprile, il Sudvietnam e Saigon avevano perso ogni controllo e sentimento, non conservavano più nulla di misericordioso o di civile. Vi dominavano l'orrore del passato e l'angoscia del futuro. Pochissimi erano capaci di serenità e di coraggio, e forse pagheranno anche per gli altri. La capitale si svegliava ogni mattina alle sei, al cessare del coprifuoco. Quasi d'incanto, le strade si riempivano di motorette. Sui marciapiedi di Tu Do, le donne stendevano misere merci. L'altoparlante della piazza tra gli alberghi Continental e Caravel suonava musica marziale. Il rombo del cannone scuoteva le finestre, ma nessuno se ne dava per inteso. Soltanto i poliziotti presidiavano gli edifici pubblici con inquietudine palese. C'era un inconscio sforzo di normalità nell'ossequio alle consuetudini. Sotto questa patina si nascondeva tuttavia un panico animale. Orde di profughi premevano alle porte di Saigon, trattenute dai soldati. All'ufficio passaporti e alla ambasciata americana, folle ora furenti ora rassegnate imploravano il visto d'uscita. Precipitava la piastra, sostituita dagli orologi e dai gioielli come moneta o strumento di baratto. All'aeroporto di Ton Son Nhut, gli aeroplani venivano presi d'assalto. Prostitute, mendicanti, borsaioli correvano dietro gli stranieri perché li portassero con loro. La psicosi del suicidio dilagava fra quanti s'erano compromessi col regime. Il Sudvietnam e Saigon vivevano col tempo contato, ogni giorno era un nuovo inferno. Si smarrivano progressivamente i contatti con la realtà. Generali si recavano al fronte con borse piene di banconote, ormai prive di valore, per stimolare i combattenti. Al Circle Sporti/ la gioventù dorata giocava a tennis o nuotava in piscina tra camerieri in giacca bianca, consumando cocktails e discutendo della moda parigina. Nei saloni di Palazzo Indipendenza, gli uomini politici si contendevano un potere ormai evanescente. La schizofrenia del Paese e della città scoppiava soprattutto di sera. Alle venti, quando incominciava il coprifuoco, le petites amoureuses che per un decennio avevano animato l'industria del riposo del guerriero yankee, offrivano ancora i propri servigi. Ragazzi quindicenni della riserva popolare, armati di fucile, davano la caccia agli occidentali, chiamandoli number ten, ossia uomini da poco, traditori. La radio e la televisione proclamavano impossibili vittorie contro il nemico al di là dal fiume, promettendo miracoli economici e svolte democratiche « dopo la difesa della pace ». Ricordo di aver incontrato un monaco buddista che era corso sulla scena del disastro del Galaxy in cui perirono quasi duecento bambini. Era sconvolto. Mi disse che il Sudvietnam aveva toccato il fondo: « Ho visto i soldati derubare i cadaveri: asportavano catenine di oro e portafogli, uccidevano i feriti. Che cosa meritiamo, se non patimenti e morte? ». Aveva visitato i profughi e assistito ad analoghe violenze: « Sopravvive chi ha soldi o protezione, per gli altri non c'è scampo. Siamo divenuti tutti bestie ». Un giovane americano, che aveva dedicato a Saigon anni di lavoro, mi telefonò per avvertirmi che partiva. « Non so dove andrò. Ma non posso più restare, mi vergogno di quanto sta accadendo. Disertiamo nel momento decisivo, non sappiamo proteggere neppure i nostri amici ». Mi riferì che l'evacuazione era degenerata nel caos: « Si salva chi è capace della massima corruzione, e da noi ci sono già manifestazioni di razzismo. Abbiamo sulla coscienza il peso di un intero popolo. Non avrei mai immaginato cose simili ». Di fatto, c'erano due guerre, quella dei deboli e dei poveri, e quella dei ricchi e dei potenti. Ai primi, la stragrande maggioranza, toccavano solo soprusi e sofferenze, ai secondi altri privilegi. Venivano violati i valori più profondi. Padri abbandonavano famiglie o, separati da esse, se ne dimenticavano. Madri vagavano senza meta, offrendo i figli agli estranei. Ciascuno badava solamente a sé, nella fuga attribuiva più importanza all'oro che alla vita umana. Rarissime erano le decisioni coscienti di restare, di rifare tutto daccapo. Mi colpiva soprattutto la mancanza di un tessuto connettivo, di una lealtà, di una convinzione. Dieci anni di dominio americano avevano dato poco al Sudvietnam oltre al consumismo. La filosofia del dollaro, innestata su una cultura coloniale predisposta alla decadenza e allo sfruttamento, era sfociata in una specie di legge della jungla. Guardavo la gente partire con le macchine fotografiche e i registratori anziché i ricordi dei vecchi e della casa: le bande di delinquenti minorili depredare gli alloggi abbandonati dagli stranieri e abbandonarsi agli incendi e ai vandalismi. Penso che non dimenticherò mai le persone conosciute negli ultimi giorni di Saigon. Il maggiore dell'esercito che collezionava banconote da tutto il mondo e, cie¬ co alla verità, mi chiedeva di mandargliene dai miei viaggi: ne conservo alcune del Vietcong e del Nordvietnam che mi diede in segreto, e chissà come se le era procurate. La moglie-bambina di un pilota dell'aviazione militare, che nella drammatica odissea aveva partorito su una nave carica di sventurati, e sognava il ritorno dai genitori a Da Nang. Il maestro elementare, cattolico, con quattro figli, scappato da Hanoi nel '54, poi da Hué nel '68 e infine da Dalat, sempre con l'incubo di un comunismo demoniaco, artireligioso, rassegnato ormai a una specie di martirio. L'agiata signora di Ban Me Tuot a cui avevano narrato che i guerriglieri spezzavano le dita troppo curate, che ignoravano il lavoro. Lo sciancato che per cinquecento piastre si precipitava a darmi informazioni errate o false, il vecchio ex ufficiale dell'esercito francese che ho sfamato per una settimana. Non dimenticherò specialmente coloro che nell'infuriare del conflitto possedevano ancora dignità e pietà. Prima di venir via da Saigon mi recai ad una Missione salesiana. La Madre superiora, suor Anna Persico, mi spiegò che sarebbe rimasta. « Sono qui da sedici anni, ho seicento bambini a cui pensare. Non posso abbandonarli ». Non sembrava spaventata: « Che cosa vuole che ci facciano? Qui c'è tutta brava gente, contadini che non s'interessano di politica. Vivono in modo onesto, pregano. Non li toccherà nessuno, se resteranno uniti ». Telefonai anche a un ministro del governo di Big Minh, il generale pacifista che dal '63 si adoprava per una autentica democrazia. « Siamo arrivati al potere troppo tardi — mi disse — ma non dobbiamo fuggire. Il nostro Stato ha bisogno di tutti. Giungeranno tempi migliori, la ragione e la tolleranza sono immortali ». Aveva sperimentato le carceri comuniste e quelle di Van Thieu, era disposto a tornarvi. « Non è mai troppo tardi per ricostruire una nazione e riconciliare un popolo », concluse. « Soltanto, non dimenticateci. Scrivete di noi, alimentate le nostre speranze, fateci sentire il vostro appoggio ». Me ne andai da Saigon senza essere riuscito a rintracciare l'unico sudvietnamita con cui ho stretto una sincera amicizia. Si chiama Phuoc, è un giovane sociologo, sposato, con un bambino di pochi mesi. Ai miei occhi, rappresentava quanto di buono erano riusciti ad esprimere trent'anni di tormento. Aveva lasciato il Paese da ragazzo per l'America, con una borsa di studio. Dopo la laurea, si era stabilito a Chicago, esercitando la professione. Aveva avuto fortuna, gli si prospettava un avvenire brillante, professionalmente e finanziariamente. Un anno fa, decise di tornare a Saigon. Credeva di poter essere utile ai suoi connazionali. Non amava Van Thieu, insegnava all'Università, assisteva l'infanzia abbandonata, lottava per la terza forza. Trascorreva i giorni di riposo dai genitori, presso Dalat. L'ultima volta che lo vidi, era prostrato dal dolore e dalla stanchezza. « Non ho più notizie dei miei — mi confidò — non so che cosa fare per mia moglie e per mio figlio ». Per me, egli riassume la tragedia del Sudvietnam: uomini come lui non hanno mai avuto la possibilità di provare a dargli pace, giustizia e un modesto benessere. Ennio Caretto

Persone citate: Anna Persico, Van Thieu