Gabriele segreto

Gabriele segreto LA CASA DEL VITTORI ALE Gabriele segreto 11 aprile 1901. Al Resto del Carlino, nella vecchia sede di piazza Calderini, si svolge, promosso dalla redazione del quotidiano bolognese, un pranzo che riunisce i due poeti-antagonisti dell'Italia dei primi del secolo, Carducci e D'Annunzio: un « banchetto », si dirà nel linguaggio pomposo del tempo, con un menu non meno pomposo, tutto scritto in francese e con le immagini sovrapposte dei due vati. Carducci ormai all'autunno della sua parabola, la mano stanca, la vena essiccata, sempre più burbero e scontroso nel retrobottega della libreria Zanichelli, dove arriva la sera con crescente fatica, già congedato dalla sua Università, in strettezze finanziarie che richiederanno pochi anni dopo l'intervento di Casa reale per l'acquisto della biblioteca; D'Annunzio al culmine della sua fortuna, uscito da poco « con gran dispetto » dalla vita parlamentare, dopo il passaggio a sinistra consacrato nel « no » al decretone Pelloux, all'inizio della stagione dilapidatrice della Capponcina, interprete dell'avanzante gusto irrazionalista e decadentista dell'epoca, idoleggiato dai giovani, adorato dalle donne, simbolo di una protesta contro l'« Italietta » ordinata e composta nello stile della borghesia post-risorgimentale che abbracciava ceti diversi, mondi opposti. Tesi, o scarsi, i rapporti fra i due poeti, fino a quel momento. D'Annunzio, quasi per caso, a Bologna, alla prima dizione, al Teatro Comunale, della sua « Canzone di Garibaldi » (un tema che evocava il memorabile discorso, al Teatro Brunetti, del cantore della Terza Italia, vent'anni prima). Il critico teatrale del Carlino, Antonio Cervi, il padre di Gino, scelto dal « divino Gabriele » come intermediario per un incontro con Carducci: e con ragione, data l'assoluta fedeltà carducciana del quotidiano bolognese, quello cui il maestro ormai vecchio riserbava i suoi strali, le sue collere, i suoi sfoghi, gli attacchi al Fisco, le ultime « ceneri e faville ». La sera del 10, prima visita di D'Annunzio a Carducci, nella casa ingombra di carte e libri, la casa di un erudito instancabile, di un filologo appassionato, qua! era prima di tutto Giosuè, il « Professore » come tutti lo chiamavano a Bologna; e poi l'iniziativa di un gruppo di redattori del Carlino volta a sancire la pacificazione nelle stesse stanze del giornale, a consacrarla con un abbraccio formale. Una colazione, che riassume due mondi, due stili. Carducci, col tovagliolo al collo, allacciato alla campagnola; D'Annunzio, con la gardenia all'occhiello, impeccabile nei movimenti della tavola, consumato in tutte le risorse della più raffinata società. Una colazione che all'inizio spazia sull'Eliade, rievoca i fantasmi del mondo classico. E poi qualche battuta cattivante di Gabriele, qualche tentativo di rompere il ghiaccio, insuperabile fra i due uomini: « Dicono che io sia un vizioso — è D'Annunzio che parla —; eppure voi vedete, maestro, non bevo che acqua ». Ed il vecchio Ednotrio, scattante: « e 10 non bevo che del vino ». Nuovo e più pesante momento di imbarazzo, qualche istante più tardi, arrivati alla frutta: D'Annunzio che porge una mela a Carducci, impacciato e quasi impedito: « Gradile, maestro, questo rosso pomo », e appena spaccato in due il frutto, un'aggiunta tipica dell'uomo: « Guardate: è 11 pomo dell'Aurora ». E Carducci, asciutto, toscaneggiando: « Ell'è una mela ». ★ * L'episodio mi è tornato in mente pochi giorni fa, al Vittoriale, inaugurando l'apertura della « Prioria », la casa privata di D'Annunzio che la Fondazione, presieduta e rianimata da Giuseppe Longo, ha voluto giustamente spalancare al pubblico, per la prima volta dopo i trentasette anni che ci separano dal malinconico addio del Poeta. Quale confronto! La casa di Carducci a Bologna, la casa del poeta-professore dell'Italia umbertina, l'uomo che prepara le lezioni con scrupolo certosino, che non fa neanche colazione per tenere i suoi corsi, alle quindici del pomeriggio, inappuntabile, se vero con se stesso e con gli allievi, esigente e pignolo: una casa tutta foderata di libri, di opere lette e consultate e annotate, di dediche care, di poche immagini, di qualche quadro stile borghese fine Ottocento, con l'innesto fra il vecchio repubblicano giacobino dei « Giambi ed Epodi » e l'amico di Crispi pacificato con la monarchia nazionale e anticlericale, fermissimo nelle intransigenze e nelle intolleranze della gioventù. E dall'altra parte questa casa artificiosa e assurda di D'Annunzio, frutto di tutte le sue delusioni, compendio di tutte le sue amarezze, oscillante fra la ricerca del « tempo perduto », nelle infinite chincaglierie e rimembranze di un'esistenza irripetibile, e la lotta contro la solitudine e la morte affiorante dai mille segni della superstizione o del sortilegio (« Tutta la vita è senza mutamento I ha un volto solo la malinconia I il pensiero ha per cima la follia I e l'amore è legato al tradimento »: i versi del Libro segreto, trascritti il 3 aprile del '22, quando la finale avventura del Vittoriale è appena agli inizi). E' la prima volta che salgo al Vittoriale. Rivendico la mia fedeltà carducciana e crociana; ricordo « le ferme preferenze intellettuali cui non intendiamo abdicare per i soli doveri di rappresentanza del governo che ci manda ». Ma imposto il problema di quello che è stato il dannunzianesimo nella storia italiana, soprattutto nella storia del costume e della vita sociale: qualcosa che ha compenetrato profondamente il nostro Paese, e non solo negli aspetti magniloquenti o retorici del fascismo, che è passato attraverso tante esperienze intellettuali, tante e contraddittorie forze politiche. ★ ★ Una casa, la « Prioria », che si presta a molte riflessioni. Tutta diversa, intanto, dalle ostentazioni spesso grottesche del museo dannunziano, quello aperto da sempre, artificioso nella somma degli artifici del poeta con quelli dei suoi epigoni, ed esecutori testamentari. La casa, invece, è specchio di una vita, è compendio, paradossale e quasi sempre irritante, di un mondo. Scelta fra i beni degli ex nemici, un antiquario tedesco che l'aveva ordinata con gusto teutonico e liberty, quasi per riassumere la generosa esperienza bellica; contrapposta al potere ufficiale dello Stato italiano con quel senso di enclave, rasentante la prigionia (« prendo possesso di questa terra »: press'a poco come aveva detto a Fiume). E affittata subito dopo Fiume, subito dopo la liquidazione dell'avventura fiumana. Contrapposto a Giolitti, nei primi mesi del '21, ma contrapposto poi anche a Mussolini, dopo l'avvento della dittatura, tanto larga nella munificenza quanto ferma nella museruola imposta al poeta stanco e sfinito. Esilio, e ripiegamento in se stesso, e chiusura di una parabola unica. Esaltazione del decadentismo, certo, ma non solo quello. Desiderio esasperato di fermare gli istanti di un'esperienza passata, e inconfondibile; con un'indulgenza, sconcertante, alla retorica e al narcisismo ma anche con qualche piega di ironia, con qualche momento di sorriso su se stesso, e sulle proprie stram¬ berie, e sui propri sogni falliti, e sui propri capricci. I libri, innanzitutto. «In così gran numero e di tanto pregio che superano forse ogni altra biblioteca di solitario studioso »: aveva detto di sé D'Annunzio, nella vanteria che sostituiva ormai le annebbiate certezze, gli orgogli smentiti. Ma sarebbe una raccolta tutta da studiare. Non c'è ombra di paragone né con la biblioteca di Carducci, né con quella di Croce, il grande maestro che dopo la morte di Carducci quasi solo si opporrà alle devastazioni del dannunzianesimo. Molti accessi occasionali; largo numero di omaggi, spesso irrilevanti. I veri libri, quelli su cui aveva studiato, neanche raccolti, forse nascosti o dispersi. Splendide legature, probabilmente originarie del Fondo Thode, l'antiquario di cui aveva rilevato la villa, a cancello chiuso. Una bibliotecasimbolo; una biblioteca-sfida. Gli strumenti di lavoro, dell'artigiano ormai stanco, non sono neanche lì. E' l'« officina » la stanza dove il poeta ha lavorato fino all'ultimo, ricercando invano una vena che si era esaurita. E' la sola stanza con le finestre aperte. E' la sola stanza sottratta all'incubo del buio, delle triplici tende, dell'atmosfera sepolcrale e decadente ritmata dalle centinaia di calchi, di armi, di organi, di statue lignee, di stalli di monastero, di frammenti di marmi dalmati, di reliquie e incensi e vetri a piombo colorati e inginocchiatoi e mappamondi. È' la sola stanza a misura umana: carica di simboli enfatici ma anche con qualche apertura autentica (l'immagine della Duse, ricoperta da un velo). Soprattutto è la stanza con i libri che veramente consultava e apriva, i dizionari e i lessici e le enciclopedie: là dove il suo decadentismo trovava un limite, il limite della parola, il culto artigianale della lingua, la passione del letterato più forte delle evasioni o degli inganni del « superuomo ». E' il momento in cui si chiude la malinconia dell'artista, ormai al suo definitivo tramonto. Quasi prigioniero dell'Italia fascista che lo esaltava ma ne diffidava (l'avversione di Mussolini era pari solo al timore che egli continuava ad averne: e non solo dai giorni della misteriosa caduta dal balcone del Palazzo Marino di Milano); chiuso nel vagheggiamento di un mondo che non esisteva più, incapace di raffigurare con schiettezza le stesse fasi di un'esistenza singolare e unica. Proiettato nella ricerca della sopravvivenza, attraverso i detriti del passato, nella lotta contro la morte, attraverso i simboli di un'esistenza consumata e chiusa. Un raro momento di sincerità, la scelta di una massima di Leonardo per la cornice di una biblioteca: « Se tu vuoi che la casa ti paia grandissima, pensa al sepolcro ». Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Bologna, Fiume, Italia, Milano