I vietnamiti dell'Arkansas di Vittorio Zucconi

I vietnamiti dell'Arkansas TEA GLI ABITANTI DI UN CAMPO PROFUGHI IN AMERICA I vietnamiti dell'Arkansas Molte sono vicende banali, alcune trasudano vigliaccheria o parlano di dubbie ricchezze messe in salvo; la maggior parte però appartengono alle catastrofi umane della storia - Funzionerà almeno il doloroso processo di "americanizzazione"? (Dal nostro inviato speciale) Fort Smith (Arkansas) Tutte le notti, Nguyen Van Xuang fa lo stesso sogno: si vede in volo su un aereo enorme, dove centinaia di bambini giocano insieme fra alberi e case, dove piove e c'è il sole. L'aereo non ha destinazione, né pilota, tutti i passeggeri sanno soltanto che volerà per sempre. Nguyen Van Xuang ha 11 anni: dall'inizio di aprile non ha fatto che volare, prima dal nord verso Saigon, poi da Saigon alle Filippine, poi a Guam, poi alle Hawaii, poi in California, ora a Fort Chaffee, nell'Arkansas, il più grande centro di raccolta profughi degli Stati Uniti, alle porte della città di Fort Smith. Il subconscio di Nguyen ha finalmente compreso bene la realtà: la vita è un lungo volo, e Questo strano mondo di verde e di baracche dev'essere un altro aeroplano, di foggia strana e ancora ben lontano dalla fine del viaggio. E' stato il padre a raccontarmi il sogno di Nguyen, mentre mangiava alla mensa del campo, con i figli, le quattro figlie e la moglie. Anche lui, come tutti i suoi connazionali rinchiusi in questo campo (mentre scrivo sono già quindicimila, e crescono di 150 all'ora) è dì una gentilezza quasi irritante. Tutte le storie che essi raccontano cominciano allo stesso modo: « Sono partito dal Vietnam il giorno 26, o 27, o 28 aprile » e finiscono allo stesso modo: « Il mio problema è ora trovare un lavoro negli Stati Uniti ». Molte sono storie banali, alcune trasudano vigliaccheria, semplice paura, ricchezze dubbie messe in salvo « in tempo » (si parla di individui con cinquantamila dollari e dieci libbre d'oro nella valigia). Altre sono palesemente false, fabbricate su misura per far piacere all'ascoltatore. La maggior parte sono però drammi degni delle grandi catastrofi umane della storia. E attraverso la voce dei profughi, il Vietnam — vissuto sempre come polemica e mai come fatto — acquista finalmente connotati umani. Mi racconta un cinese di 59 anni, Sam Ciang, di avere combattuto tutta la sua vita: prima con Ciang Kaì-shek contro Mao Tsetung, poi con Van Thieu contro Ho Chi Minh. Era a Da Nang il marzo scorso, ed ha visto i primi profughi fuggire con le truppe. Quel giorno, quest'uomo ha semplicemente smesso di combattere ed ora parla con distaccata ironia della sua vita di perdente nato. Che farà in futuro? « Che può fare un cinese in America — risponde — se non il lavandaio o il cuoco? ». Nessuno sa dare una spiegazione razionale per la fuga e probabilmente non ne esiste alcuna. Molti raccontano semplicemente di essere stati avvertiti dall'ambasciata americana che potevano lasciare il Paese e di averlo fatto, con la stessa accettazione passiva con cui ora rispondono alle domande. Altri citano il fatto che «tutti scappavano »: un ragazzo di diciotto anni, capitano pilota dell'esercito di Thieu. era all'aeroporto di Saigon con il suo elicottero e i cinque compagni di equipaggio la mattina del 28 aprile, l'ultimo giorno di guerra. Fuga in volo Quando i razzi dei comunisti cominciarono a battere la pista, il giovane pilota — Phat Duan — decise dì partire con il suo equipaggio verso la flotta americana, al largo cento miglia nelle acque di Saigon. Si affiancò in volo alla portaerei americana Hanckok: « Sintonizzai la radio sulla lunghezza d'onda della nave — racconta — e sentii gli ufficiali americani dal ponte di comando che domandavano che cosa lare di noi. Vidi dietro di me un altro elicottero sudvietnamita gettarsi come un kamikaze sulla nave e sfasciarsi sul ponte, un altro buttarsi a mare, sen¬ za ragione. Io riuscii a posarmi regolarmente sulla portaerei e feci appena in tempo ad uscire prima che i marinai americani buttassero a mare il mio apparecchio per far posto agli elicotteri americani in arrivo ». Lungo le strade del campo, i profughi sorridono invariabilmente all'arrivo di un giornalista e del suo ufficiale di scorta, smettono di camminare, pronti ad offrire la loro storia come un biglietto da visita, un documento d'identità o forse il prezzo del biglietto. « Vuol sapere perché sono scappato? — dice Tram Van Hoa —. Perché sono stato condannato a morte dai vietcong, che hanno messo 500 mila piastre (400 mila lire circa) di taglia sulla mia testa ». Quest'uomo faceva a Saigon « l'analista di informazioni militari ». La spia, insomma. Allo spaccio-bar del campo, incontro due ragazze bellissime e truccatissime. Una, la più bella, mi rivolge la parola in un italiano perfetto: è figlia di un vietnamita e di un'italo-francese, dice di avere 16 anni e di essere una studentessa, ma non ricorda bene di che cosa. Saprò più tardi che l'albergatore di Fort Smith, sessantenne e scapolo, si è offerto di prenderla sotto la sua tutela, ma gliel'hanno rifiutata. E la ragazza non capisce perché. La « tutela » di un cittadino americano è il solo mezzo per uscire dal campo. Chi trova uno sponsor, un «tutore» cioè, può andarsene con tutta la famìglia. Nei giorni dei primi arrivi, decine di curiosi e di potenziali sponsors sì aggiravano per il campo, come in un mercato, scegliendo il vietnamita da portarsi a casa. Alcuni cercarono di portare via manodopera a basso costo — un produttore di funghi californiano voleva dieci adulti da « adottare » — altri erano mossi da interessi ancora peggiori come il proprietario di un club nel Texas che cercava venti « figliolette » fra 15 e 30 anni. I più erano soltanto onesti, generosi cittadini. Ma la « pesca del profugo », aveva assunto caratteri grotteschi ed ora le domande di « tutela » devono passare attraverso le agenzie governative e private (chiese, esercito della salvezza, ecc.) che le selezionano. Ve ne sono millecento inevase — una cifra incoraggiante, ma insufficiente certo a coprire gli arrivi di un solo giorno — che le varie agenzie stanno esaminando. La sola isola di « privacy » lasciata ai profughi è il cunicolo assegnato ad ogni nucleo familiare all'interno delle baracche, diviso dagli altri da una parete di compensato. Là, nessuno può entrare senza essere invitato da un residente, e gli inviti sono rarissimi. Ho avuto fortuna nel riceverne uno, da un capitano dei rangers sudvietnamiti, e nella sua calla, fra tavole di compensato e sei brande, il capitano X (ha preteso l'anonimato) mi ha raccontato la sua vicenda, una delle più straordinarie. Aspra avventura II 10 marzo scorso egli era a Ban Me Thuot, dove i nordvietnamiti lanciarono l'attacco che provocò, come una palla di neve, la valanga della disfatta sudvietnamita. Il capitano X aveva cinquanta uomini ai suoi ordini. «Combattemmo due giorni e due notti — racconta — e il 12 marzo giunse l'ordine di ritirarsi. Poche ore dopo eravamo circondati da nordvietnamiti e ci arrendemmo. Fui fatto prigioniero dalla 320-' divisione nordvietnamita con i 26 superstiti della mia unità. I soldati del Nord erano tutti giovanissimi, tra 18 e 20 anni, e così i loro ufficiali, distinti dalla truppa soltanto dalla pistola che portano alla cintola, non esistendo i gradi nell'esercito di Hanoi ». « Ci fecero marciare — continua — con loro sulle montagne e lavorare duro a trasportare casse di munizioni fino alle truppe combattenti. Ci davano da mangiare una tazza di riso e un pugno di sale grosso due volte al giorno, mentre loro avevano, come solo pasto, due scatole di razioni di emergenza prodotte in Cina». « La sera, dice il capitano, un uomo meticoloso che parla consultando continuamente un piccolo calendario buddista pieno di crocette e di segni, i soldati nordvietnamiti si sedevano con noi prigionieri e parlavano di politica. "Non combattiamo contro di voi — dicevano —. non contro il popolo del Sud Vietnam, ma contro la cricca che vi tiranneggia e contro gli americani. Non do¬ vete avere paura di noi, ma di Van Thieu " ». A mezzogiorno del 16 marzo, dopo tre giorni di prigionia, il capitano sudvietnami- I ta si accorse che solo tre soldati erano rimasti a guardia j dei ventisei prigionieri, e si \ erano tutti assopiti sull'erba, | dopo aver consumato la loro I scatoletta cinese. « Fuggimmo, ciascuno in direzioni diverse, e solo dopo molti minuti udimmo i colpi delle guardie ». Solo, il capitano raggiunse a piedi Da Nang, attraverso la boscaglia e la jungla. Giunto a Da Nang, scoprì che quella città era prossima alla caduta e dovette continuare la fuga, su un camion dell'esercito in rotta, verso il Sud, fino a che l'autostrada costiera venne bloccata dai nordvietnamiti a Na Trang. Da lì, con altri quindici sbandati, salì su una giunca cinese che un prete cattolico aveva affittato per loro pagando, di tasca sua, un milione di lire al proprietario. Giunse a Saigon il 25 aprile, tre giorni soltanto prima della fine, corse a salutare la madre che aveva già appeso la sua foto fra quella dei morti di casa, e s'imbarcò su una nave di profughi verso le Filippine. Ho chiesto al capitano qual è l'impressione più viva che ha riportato dalla odissea e la risposta è stata sorprendente: « Ho visto che i nordvietnamiti erano equipaggiati peggio di noi, che le loro divisioni erano piene di donne e di ragazzi. Da quel giorno continuo a chiedermi come abbiamo fatto a perdere la guerra così in fretta. Vorrei tanto chiederlo a Thieu », aggiunge con un lampo d'odio negli occhi. I militari che gestiscono il campo si domandano dove troveranno lo spazio e i soldi per prendersi cura di altri venti o trentamila che sono già in rotta per Fort Chaffee, se il parlamento non si affretta a stanziare ì fondi necessari. I profughi, compresi ì bambini nelle loro fantasie oniriche, si angosciano nell'attesa del domani, della promessa americanizzazione, pregando che questa funzioni almeno un poco meglio della « vietnamizzazione ». Noi ci chiediamo ancora se era davvero necessario un esodo cosi massiccio, o se invece il confine tra dimostrazione politica programmata e il gesto umanitario è terribilmente sottile. A Fort Chaffee, tutti hanno domande, nessuno ha le risposte. L'emergenza aiuta a rimandarle e a metterle da parte. Ma non per molto. Vittorio Zucconi Camp Pendleton. Un campo di rifugiati negli Stati Uniti : piccoli testimoni di una grande tragedia (Telefoto Ap)