Dalla corte del Papa al regno di Menelik di Carlo Falconi

Dalla corte del Papa al regno di Menelik ANTONELLI, IL CONTE ESPLORATORE Dalla corte del Papa al regno di Menelik L'11 gennaio 1901, a bordo del Savoia, in navigazione dal Sudamerica verso Genova, forse solo pochi membri dell'equipaggio seppero del decesso di un misterioso passeggero. E nessuno di loro si meravigliò quando il capitano, anziché dar disposizioni per far calare la salma in mare, la fece involgere in un drappo imbevuto di acidi particolari conservandola così per lo sbarco. Il morto era un alto personaggio politico che esigeva il raro privilegio. Poco dopo l'attracco in porto, infatti, la salma venne avviata per treno a Roma dove fu allestita una camera ardente in una sala di prima classe della stessa stazione Termini e venne vegliata da addetti al ministero degli Esteri. L'indomani poi, ai funerali, nella folla di autorità e personalità si potevano facilmente riconoscere il marchese Visconti Venosta, ministro degli Affari esteri, Rava, sottosegretario di Stato, molti membri del corpo diplomatico, colleghi delle due Camere E nei giorni precedenti, le agenzie di tutta Europa, d'America e d'Africa avevano annunciato il suo trapasso. Il defunto, infatti, prima di essere ministro plenipotenziario a Buenos Aires e successivamente a Rio de Janeiro, era stato uno dei protagonisti della storia coloniale in Africa apponendo la sua firma, a soli 34 anni (al momento della morte non ne aveva ancora 48), al famoso trattato di Uccisili tra Italia e Etiopia, che lui stesso aveva negoziato. Il suo nome, d'altronde, era uno dei più famosi e discussi delle ultime vicende risorgimeli tali italiane, essendo nientemeno che quello del famoso segretario di Stato di Pio IX Antonelli. Il conte Pietro ne era infatti uno dei nipoti. Ma proprio l'aver passato per primo e senza indugi il Rubicone fra tutti i suoi parenti lo rese la pecora nera della famiglia. Se politicamente, infatti, egli « consumò il tradimento » verso i trent'anni, il distacco spirituale risaliva a molto prima, a quel turbolento periodo di gioventù scapigliata che aveva attraversato dai 16 in poi. Pur rimanendo probabilmente religioso, infatti, sia pure in modo molto vago, egli aveva presto trovato insopportabile il mondo ecclesiastico nel quale genitori e parenti avrebbero voluto covarlo, tenendolo soprattutto sotto le ali del nume tutelare di famiglia, il cardinale. La situazione divenne per lui addirittura drammatica dopo l'occupazione di Roma. Così che, non appena potè, prese le distanze: in particolare approfittò del servizio militare che lo portò lontano dalla sua città natale, a Vicenza, per dare la stura ad ogni genere di esperienze. Proseguì imperterrito, finché non fu toccato dal colpo di grazia dell'amore: quello per una giovinetta russa appena quindicenne, interessante ma non bella, che pochi anni dopo sarebbe divenuta rapidamente famosa come pittrice, ma avrebbe acquistato ancora maggior celebrità con la pubblicazione del suo Journal avvenuta nel 1885, un anno dopo la sua morte precoce (per etisia ereditaria): Marija Baskirceva. Annunciando la scomparsa del diplomatico Pietro Antonelli nel 1901, le agenzie di stampa estere, e persino francesi, gli attribuirono, per il periodo di gioventù, una folle passione per la moglie d'un diplomatico russo, affermando che la cosa gli sarebbe costata un sanguinoso duello a Napoli. La notizia era un grosso qui prò quo, imperdonabile soprattutto se si pensa che l'idillio e il dramma d'amore da lui vissuto a Roma nel 1876 era stato ampiamente narrato nel diario della Baskirceva. E' vero che l'Antonelli vi era indicato soltanto con l'iniziale del cognome oltreché col nome, ma poi si diceva a chiare lettere, e ripetutamente, che si trattava del nipote del cardinale segretario di Stato, anzi nei suoi riguardi era spesso usato l'epiteto di « cardinalino » o, dopo gli esercizi spirituali impostigli dal padre per garantirne il ravvedimento, «il monaco». Vezzeggiativi, questi, mescolati ad espressioni più pesanti come « canaglia », « tipaccio » ecc.. che nella cronaca briosa dell'innamorata erano però di chiaro sapore affettuoso, come del resto quello dominante fra tutti, e certamente appreso in loco, di « figlio di prete », solitamente accompagnato da accrescitivi come « quel tremendo, quel miserabile figlio di... » o persino « figlio d'un cane e di un prete ». Nessun dubbio che in questa scelta di epiteti giocava, e soprattutto giocò dopo che fu chiara alla fanciulla l'opposizione del cardinale alle sue nozze perché straniera e soprattutto perché di religione ortodossa, la parentela col celebre zio, ma non questo soltanto, bensì anche quella certa « aria di prete » o « di gesuita » di cui il conte Pietro, come del resto gli Antonelli in genere, pare fosse, nonostante tutto, connotato: quell'aria cioè che era un misto inconfondibile di falsa ingenuità e di irresistibile furbizia, di modi cauti e felpati c di coperto libertinaggio, ecc. E' sintomatico, infatti, che anche Taitù, l'imperatrice d'Etiopia, solesse più tardi apostrofare con gli stessi identici termini il conte Pietro, di cui aveva avuto modo di conoscere assai meglio dell'incauta Marija Konstantinovna la vita segreta. L'affascinante romanzo d'amore rievocato col suo personalissimo brio dalla Baskirceva durò pochi indimenticabili mesi, stroncato inesorabilmente, poco prima della sua quasi improvvisa morte, dallo zio cardinale; ma ebbe conseguenze definitive per la vita dell'Antonelli che, abbandonatosi alle reazioni più pericolose per dimenticarlo, finì per scegliere l'esilio da Roma e dall'Italia, anzi, «non sapendo in qual bosco far legna », decidendo, come tanti altri allora, di andare a fare l'esploratore nel cuore dell'Africa. Il marchese perugino Orazio Antinori, che nel '67 aveva dato vita col Negri e col Correnti alla Società Geografica Italiana, partecipando poi a varie spedizioni nel Mar Rosso e in Etiopia, aveva preparato per il 1876 un'altra spedizione nello Scioà, dove il re Menelik aveva allora tra i suoi consiglieri monsignor Guglielmo Massaia, più tardi cardinale. L'Antonelli si unì al gruppo del capitano Martini tre anni dopo, nel marzo del 1879. Aveva allora 26 anni e né il pericolo di morte incontrato quasi subito in una spericolata avventura tentata col Giulietti, né, pochi mesi dopo, la quasi paralisi del braccio destro causatagli da un colpo di rivoltella sfuggitogli dalla fondina, smentirono il suo entusiasmo. Dapprima si appassionò alle esplorazioni e allo studio dell'ambiente; poi non tardò a rendersi conto delle possibilità politiche ed economiche che poteva offrire all'Italia un abile sfruttamento dell'ostilità nutrita da Menelik verso il negus Giovanni IV. Già nell'81 egli riusciva a stipulare un contratto con Menelik per l'acquisto in Italia di 2.000 fucili Remington e l'apertura di una nuova via commerciale attraverso la Dancalia. Forte di questo successo se ne tornò in patria pei raccogliere i frutti politici ed economici della sua iniziativa. Fu il primo di altri quattro viaggi, sempre abilissimamente preparati e reclamizzati, coi quali egli gettò le basi dei suoi successivi exploits politici e finanziari. Come in Africa il suo colpe di mano più importante fu l'aver catturato le simpatie di Menelik (con tutti gli altri, amici e nemici, italiani e stranieri, egli si apriva la strada dell'oro e della gloria col più incredibile sangue freddo, senza esclusione di colpi), così in Italia il suo maggior colpo fu quello di esser riuscito ad entrare nelle grazie di Crispi che, divenuto nel 1887 presidente del Consiglio, ne fece la propria « longa manus » in Africa. Il suo capolavoro, come gli studi più recenti tendono a sostenere, fu ovviamente il trattato di Uccialli, non solo per il modo con cui seppe giungervi, ma anche per l'abilità e la tenacia con cui seppe sostenerlo e difenderlo, anche se, alla fine, con sfortuna. In ogni caso fu quello, anche se insidiato dalle numerose inimicizie e ostilità procurategli dal suo carattere troppo duro e dai suoi metodi troppo spicci, il suo momento più glorioso. Per poco non andò in porto anche il suo matrimonio con una figlia di Crispi, tanto il discusso statista gli si era legato. Crispi, del resto, che nel '91, dopo il ritorno dell'Antonelli dall'Africa, aveva appoggiato la sua elezione a deputato del IV collegio di Roma, una volta tornato al potere nel '93 non mancò di nominarlo sottosegretario per gli Affari esteri. Quando morì, così Rastignac spiegava ai francesi — e può farlo tuttora agli italiani sprovveduti — il sorprendente fenomeno di un esponente dell'aristocrazia nera passato in breve tempo al « nemico »: « Ecco delle cose che, a primo acchito, stupiscono chiunque, ma non sorprendono più le persone che hanno abitato in Italia e studiato il grande e lento movimento di avvicinamento di una parte del patriziato romano alla dinastia dei Savoia. Numerose famiglie romane sono restate papali, ma non sono più papisle; è una sfumatura: si ama il papa, ma si serve il re. Ci sono dei principi romani alla corte dei papa e alla corte del Quirinale, sono fratelli e cugini, ci si divide, il mondo nero e il mondo bianco si fanno dei sorrisini attraverso il mondo grigio o neutro, fino al giorno in cui "gli avvenimenti che si annunciano"... rimetteranno ciascuno al posto che deve occupare ». Carlo Falconi