Giro d'Italia della Biennale di Francesco Rosso

Giro d'Italia della Biennale UN INCONTRO CON IL PRESIDENTE RIPA DI MEANA Per ora il decentramento da Venezia toccherà Milano e Torino - I soldi che non arrivano Giro d'Italia della Biennale (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 12 maggio. Come se non bastassero i mille guai che già l'affliggono, Venezia, con le beghe a non finire della Biennale, torna nell'occhio del ciclone all'inizio di ogni stagione, quando si concretano i programmi. E' questione politica, oppure al fondo c'è qualcosa che, attraverso i mancati finanziamenti, tende a svuotare la nuova Biennale dei presupposti che l'hanno generata? Che la Biennale navighi finanziariamente male lo ha denunciato apertamente Carlo Ripa di Meana, socialista, presidente del contestatissimo ente. Secondo la legge del 26 luglio 1973, lo Stato dovrebbe finanziare la Biennale di Venezia con un miliardo all'anno, il Comune con 92 milioni, la Regione con 30 milioni, la Provincia con 5 milioni. La metà dei contributi dovrebbe, per legge, essere versata entro il 31 gennaio dell'esercizio a cui si riferisce. A tutt'oggi la Biennale non ha ancora ricevuto un centesimo e sopravvive con gli avanzi di cassa dell'anno scorso, poco più di dieci milioni. Dire che Carlo Ripa di Meana sia furioso contro le inadempienze governative sarebbe eccessivo; amareggiato lo è, e in misura che rasenta la nausea. « I soldi non arrivano — mi dice con quel suo modo spaziato di parlare — perché non esiste una volontà di dare alla Biennale le carte con cui poter giocare. C'è una resistenza che non è solo delle parti politiche, ma è una resistenza alle cose nuove ». E' sufficiente ricordare quanto è accaduto l'anno scorso per rendersi conto che la Biennale, continuando le cose coma si prospettano anche quest'anno, avrà vita sempre più difficile. L'anno scorso, l'inaugurazione si trasformò in un comizio pro-Cile; quest'anno ci sarà un comizio per esaltare la vittoria rossa in Cambogia e in Vietnam? Forse no, anche se alcuni lo | temono, perché sarebbe troppo scoperta la funzione antiamericana di quest'ente, incominciata l'anno scorso con il processo al Cile, ma con bersagli molto ben individuabili, gli Stati Uniti e la democrazia cristiana cilena, per colpire, come una specie di boomerang, quella di casa nostra. Gli avversari Carlo Ripa di Meana è uomo di parte, socialista (non gli ho domandato di quale corrente); ma al di là di ogni posizione politica, egli è uomo di cultura, e dei più avvertiti, mi sembra. Quando accetta i consigli di Ronconi per il teatro non lo fa per passione politica, ma perché convinto che mettere insieme in una chiesa sconsacrata i l'Otello di Meme Perlini, col protagonista nudo sull'ex altare, sia un avvenimento culturale che può essere di rottura con la tradizione. Ed è proprio questo che i suoi avversari, compresi i suoi compagni di partito, gli rimproverano. E' troppo avanti, sembra dicano, bisogna riportarlo nel solco di una certa tradizione. E gli tagliano i fondi. « Questa Biennale, nata venti mesi fa, che dispone di un contributo irrisorio — mi dice — è messa alle corde da difficoltà che derivano dalla tradizione. Non c'è ragione per me, con un ente ancora senza debiti, di accettare la sorte che ha colpito i teatri italiani; se noi c'indebitiamo, dovremo accettare le posizioni di coloro che vogliono una determinata Biennale». Gentile, garbato, senza mai alterare la voce di un tono, Carlo Ripa di Meana dice quasi soavemente le parole più dure contro il sistema, che gli impedisce di muoversi come egli vorrebbe. Ed il sistema comprende anche i suoi compagni di partito, i socialisti, che lo osteggiano non poco. S'era sparsa la voce che egli si sarebbe presentato candidato alle elezioni comunali, con ambizioni di sindaco. «Ma l'ho dichiarato più e più volte, non mi presento candidato. Le loro paure, quindi, sono fuori luogo. Se giudico obiettivamente la mancanza delle sovvenzioni del Comune, dove il vicesindaco è un socialista, devo concludere che non c'è partecipazione attiva a questa nostra esperienza. Giudico dai fatti, non dalle voci, e se li sommo alle altre prove di relativa incredulità che sono venute dai socialisti locali, devo concludere che non tutto funziona nel migliore dei modi ». Gli rimproverano di aver trasformato la Biennale in un bivacco estivo-autunnale di capelloni, di beatles, di squattrinati, cioè di aver tradito la vocazione di Venezia per un turismo di classe, di essere un esibizionista; e le reazioni degli albergatori, dei commercianti di Venezia sono quasi tutte negative. « L'esperimento nuovo è stato drammatico — dice —. Gli albergatori si sono inalberati, gridando al tradimento delle tradizioni; però, alla distanza, si rendono conto che si tratta di esperimento attrattivo. Non sono i levrieri bianchi, i fasci di orchidee delle dive in gondola, né le soste al Florian ad attrarre gente a Venezia. Anche se oggi noi non richiamiamo un turismo che possa influenzare lo Harry's Bar, il Danieli, il Gritti, il Bauer, che del resto sono sempre strapieni, esiste una specie di extraterritorialità culturale per sperimentazioni efficaci di nuovi progetti, specie per il Terzo Mondo. Chi vuole e può ha a sua disposizione Broadway per vedere i film e le riviste colossal o sexy; oppure andare al parco Gorkij di Mosca ad assistere all'esaltazione del nazionalismo patriottico, ma chi vuol trovare qualcosa dì nuovo deve venire a Venezia ». Le odierne resistenze non gli derivano anche dalla decisione di escludere la Spagna, che pure è proprietaria di un padiglione ai Giardini, dalla Biennale d'arte figurativa? « In Spagna, alla fine del franchismo — dice — stanno accadendo avvenimenti che richiedono certe solidarietà. Se non vogliamo che la Biennale diventi un fatto di pubbliche relazioni, dobbiamo comportarci in determinati modi. Abbiamo incaricato il pittore Eduardo Arroyo di prendere contatti in Spagna con i giovani pittori d'avanguardia; l'hanno arrestato, privato del passaporto ed espulso. Accettare la Spagna di Franco significava ignorare che Alfonso e Genoveffa Sastre sono in galera solo perché intellettuali dissidenti ». Però accettate la Russia che manda in esilio Solzenicyn. « Andremo a Mosca (vado in treno perché ho paura dell'aereo) per chiedere che ci concedano (sottolineo questo concedano, ma lo faccio io, non Ripa di Meana) il loro grande "designer" Rodcenko, e anche il loro grande regista Liubimov. Avete un padiglione enorme, gli diremo, addirittura zarista; mandateci a Venezia dei pittori nuovi, moderni. Noi vorremmo i pittori e scultori russi che loro non lasciano uscire dal confine ». E se continuano a mandarvi il realismo socialista, con i ritratti di Lenin ed i contadini che guidano trattori? Carlo Ripa di Meana sorride, forse rassegnato. Invecchia bene Poco prima mi aveva detto: « Oggi, oserei affermare che la Biennale incomincia ad invecchiare bene », intendendo che ormai l'esperimento è accettato dalla quasi totalità dell'avanguardia artistica, che accetta anche il biglietto a cento lire, il decentramento non solo nelle fabbriche di Marghera, ma in tutta Italia. « Per ora andremo a Milano perché la Regione Lombardia ci assiste finanziariamente, ma pensiamo che la Biennale può diventare una grande passerella culturale per tutta l'Italia ». Dopo Milano, l'esperimento si estenderà a Torino. « Ab¬ biamo in mente di realizzare una specie di digest, un grande riassunto di tutto Aristofane con l'intervento di Luca Ronconi. Poi centocinquanta ore audiovisive dedicate ai quadri sindacali, di seminari teatrali con Grotowski, il leccese Guglielmo Barba, che ora vive in Danimarca, ed il regista americano Serban. In seguito vorremmo creare a Torino il laboratorio dei multimedia, un progetto ambizioso e costoso che non potremmo realizzare da soli. Oltre Lombardia e Piemonte, dovrebbero concorrere anche Emilia e Romagna, ed altre Regioni. Con l'Emilia stiamo realizzando il "Teatro fluviale", una grande chiatta su cui la compagnia partirà da Piacenza, scenderà il Po, arriverà a Chioggia, risalirà il Brenta e arriverà a Venezia rappresentando un po' ovunque le opere del "Teatro di stalla", realizzate da Giuliano Scabia, che ha recuperato vecchi canovacci del teatro popolare ». Ma intanto bussa alle porte uno degli avvenimenti più ambiziosi nel programma della Biennale, il Giugno del balletto, un'impresa che costerà circa 700 milioni; la Biennale interverrà solo con 15 milioni per pagare le spese della scuola mondiale di danza, dove ad insegnare si susseguiranno grandi ballerini russi moderni, Fred Astaire e lo stracelebre Béjart. La scuola sarà aperta a tutti i giovani del mondo alla modestissima spesa di diecimila lire per quattro settimane di lezioni, tavola calda e una sommaria ospitalità collegiale. E' diffusione della cultura o demagogia? « Direi che la freddezza iniziale si sta smorzando, è la risposta. Anche Romolo Valli, a Spoleto, ha dichiarato che la strada della Biennale è quella giusta. Ciò che oggi sembra dissacrante, domani sarà già tradizionale. Pensi al festival del teatro di Jean Vilar ad Avignone: pareva la rivoluzione, oggi è già vecchio ». Francesco Rosso