Come vivono i profughi del Vietnam in un campo di raccolta in Arkansas

Come vivono i profughi del Vietnam in un campo di raccolta in Arkansas Come vivono i profughi del Vietnam in un campo di raccolta in Arkansas (Dal nostro inviato speciale) Fort Smith, 9 maggio. Nel 1965, centocinquantamila marines americani sbarcarono a Da Nang: nel 1975, centocinquantamila vietnamiti sbarcano in America: alla fine del tunnel della guerra non c'era una luce, ma uno specchio. L'America ha trovato l'immagine rovesciata delle sue azioni in un paradosso storico che la lascia amara e turbata. Fort Chaffee, nell'Arkansas, alla periferia di Fort Smith, è il più grande terminale dello sbarco vietnamita, il maggiore campo profughi degli Stati Uniti: dodicimila sono già raccolti, duemila al giorno ne arrivano, forse trenta, quarantamila li raggiungeranno nessuno sa quando. E' un gigantesco imbuto umano, nel quale tredici aerei al giorno versano migliaia di bambini, donne, uomini e vecchi e dal quale escono non più di poche decine di fortunati alla settimana, coloro che ottengono il patrocinio da qualche americano generoso, con la loro moglie, nonni, cugini, figli, in interi clan familiari. Fort Chaffee è un campo di addestramento del¬ l'esercito in semiabbandono dalla fine della guerra: oggi è il cimitero vivente di una politica, e insieme la nursery di un altro formidabile trapianto razziale per l'America. Gli ultimi spiccioli di un enorme capitale umano sprecato si raccolgono qui. Si entra a Fort Chaffee con l'impressione di varcare la soglia di un'esperienza dantesca, tesi a percepire il primo pianto di bambini, con il ricordo ancora vivo delle immagini di panico animalesco viste a Saigon nelle ore del disfacimento. E invece non è inferno, ma limbo: una grande malinconia, fatta di ordine, pulizia, silenzio perfetti, regna dovunque. Pochi panni colorati alle finestre delle 370 baracche a due piani danno appena il senso dell'umanità che brulica nel campo, ma l'atmosfera è irreale. Gli abitanti di questa «città del nulla», né americana, né vietnamita, vagano per le strade diritte e regolari della base senza una meta che non sia la mensa o lo spaccio, senza una parola, senza un saluto. Veicoli militari passano in fretta, poliziotti controllano gli in¬ croci, il silenzio è rotto a tratti dall'altoparlante che lancia avvisi in vietnamita. Raramente gruppi di ragazzi esplodono improvvisi intorno ad un pallone di football, nasce una mischia, si spegne subito senza ragione. Dodicimila persone sono cadute qui in un volontario letargo spirituale. Ho visto una giovane donna, la lunga gonna di seta con gli alti spacchi sopra i pantaloni, ripercorrere trenta volte un tratto di strada, avanti e indietro, la stessa famiglia fare tre volte la fila alla mensa senza mai finire la propria razione. Eppure, sotto questa crosta di apatia assoluta, «asiatica», ribolle una tragedia umana che si arriva solo a intuire. Due sere fa è scoppiato un «piccolo incidente» (dicono i comunicati dell'amministrazione militare) che è stato come una crepa nella diga dell'indifferenza. Un gruppo di ex ufficiali sudvietnamiti ha riconosciuto, nella penombra della sera, il generale Quang — ex capo dei Servizi di Sicurezza del governo di Saigon — forse il più sinistro personaggio del regime di Thieu. Mentre Quang, come un prò-fugo qualsiasi, mangiava un gelato allo spaccio, lo hanno circondato in silenzio e gli hanno bisbigliato: «Generale, non ora. Ti ammazzeremo più tardi quando i soldati non ci saranno più». La scena è durata pochi secondi, non più di un'increspatura nell'acqua stagnante del campo: mi diranno dopo che tutti quei giovani ufficiali dovettero pagare a Quang sino a cinque milioni di piastre (tre-quattro milioni di lire) per comprare il passaporto per sé e per la famiglia. In questo stesso campo, profughi tra i profughi, ci sono l'ex vice primo ministro, Tran Van Don e una dozzina di ministri e alti funzionari del governo Thieu. Dalla sera dell'incidente Quang sono spariti dalla circolazione e fanno dire di essere partiti: stamane, persino uno degli ufficiali americani che governano il campo ha confessato di non sapere dove sono, di avere dato ordine perché i pezzi grossi fossero scovati. Li hanno trovati raccolti insieme, al secondo piano di una baracca, dove si proteg- 1 gono a vicenda dall'odio dei loro compagni di sventura. «Quang — mi ha detto un poliziotto militare Usa — sarà il primo omicidio di questa città nascente». Verso il mondo esterno (gli americani che li accolgono, «ma che non li amano», gli addetti ai servizi assistenziali, i giornalisti che brulicano nel campo alla ricerca del «colore») i profughi passano meccanicamente dall'apatia ad una arrendevolezza disarmante. Chiunque, tranne i «pezzi grossi», chiusi nel loro terrore, si ferma a parlare, ma solo se richiesto. MoHi raccontano la stessa storici, come sono usciti, e perché: la paura dei comunisti, il giuramento di non tornare mai più a Saigon finché ci saranno i «rossi». Un ragazzo di diciotto anni mi dice di essere stato pilota di elicotteri e di essersi | buttato con il suo apparec- chio, la mattina della grande fuga (28 aprile), sulla tolda di una portaerei americana, laVittorio Zucconi (Continua a pagina 2 in quarta colonna)