Commiato di Monnet il padre dell'Europa

Commiato di Monnet il padre dell'Europa L'ISPIRAZIONE E LA DIPLOMAZIA Commiato di Monnet il padre dell'Europa Un omino brizzolato, con un cappelluccio sulla testa, gli occhiali sul naso c i baffetti alla Poirot come ogni francese di buono stampo, salirà nel pomeriggio di oggi non senza una certa fatica i dieci gradini che recano al pianterreno sopraelevato del palazzo del Quai d'Orsay a Parigi. Le guardie repubblicane, sciabole nude davanti al petto, lo saluteranno senza sapere troppo bene chi egli sia, non distinguendolo dai personaggi che lo precederanno o seguiranno. Nel Salone dell'Orologio egli si metterà a sedere, forse in prima fila forse no, ma senza che ciò abbia per lui importanza. Stringerà senza effusioni le mani dei vicini, risponderà con una certa asciuttezza ai cenni di saluto dei lontani. Ascolterà due o tre solenni discorsi: in essi si farà probabilmente il suo nome, ma forse no e anche questa non avrà importanza. Giungeranno al suo orecchio, che è ancora buono, citazioni di frasi che egli ben ricorda per averle scritte venticinque anni or sono, dopo essersi consultato con Pierre Uri e con George Ball. « La pace mondiale non può essere salvaguardata senza sforzi creativi all'altezza dei pericoli che la minacciano... Il contributo che un'Europa organizzata e vivente può dare a*.' <'à è indispensabile al maiitenì mento di relazioni pacifiche... Radunare le nazioni europee esige che sia eliminata l'opposizione secolare tra Francia e Germania... ». Sono le parole che egli mise in bocca il 9 maggio 1950 a Robert Schuman, ministro degli Esteri francese, e che spalancarono un grande squarcio celeste nel cielo del secondo dopoguerra, Stalin regnando in Oriente, Masaryk essendo stato defenestrato quattordici mesi prima a Praga, l'invasione della Corea del Sud da parte di quella del Nord stando per verificarsi. « Il governo francese propone di mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una Alta Autorità comune, in una organizzazione aperta agli altri paesi d'Europa... Questa produzione sarà offerta al mondo intero, senza distinzione né esclusioni, per contribuire al progresso dell'opera di pace... La proposta realizzerà le prime assise concrete di una Federazione europea... ». Mentre queste parole avveniristiche rimbalzeranno contro gli stucchi dorati della sala, Jean Monnet (io credo) socchiuderà gli occhi, che è quello che si fa per concentrarsi sul proprio passato e percorrerlo in un balzo. Venticinque anni fa, prestando al potere politico quelle parole, egli aveva aperto la prima delle sette porte che i suoi contemporanei in Europa occidentale dovevano varcare per giungere al Nuovo Regno. Questo valico portava a un settore limitato ma emblematico. Per il carbone della Renania e per il ferro della Lorena milioni di uomini avevano combattuto ed erano morti, o così si pensava: in realtà, dal 1792 al 1945, si era lottato per decidere chi della Francia o della Germania dovesse avere l'egemonia sull'Europa continentale. Questa lotta aveva coinvolto quasi tutti i popoli europei ed anche i più cospicui di quelli non europei, l'Europa essendo il centro del mondo. Dopo le stragi e le distruzioni dell'ultima prova quell'Europa si era ridotta a un ammasso di rovine: al centro si accampavano contrapposti gli eserciti dei vittoriosi imperi esterni, il sovietico e l'americano. Spezzato in due il continente, era divisa in due anche la Germania: oggetto dunque di pericolosissima rivalità, pretesto e fomite di instabilità. La pace e la guerra erano sospese a un filo; e per spezzarlo sarebbe bastato perdere la competizione per la Germania, e non tanto per il suo territorio quanto per il suo spirito. L'opposizione secolare tra Germania e Francia declinava in realtà nel 1950; il carbone stava passando di moda come principale fonte di energia industriale; non con il solo acciaio si sarebbero vinte le nuove guerre. Purtuttavia — pensa Monnet dietro gli occhietti socchiusi, mentre sul suo capo continuano ad alitare brani di discorsi — non fu sbagliato nel 1950 proporre la messa in comune delle due materie prime strategiche per convincere i francesi che — di'.ndo i tedeschi in pegno a una Autorità soprannazionale le fondamenta della loro inevitabile ripresa economica — li si poteva riammettere nel consorzio europeo da cui la barbarie hitleriana ancor prima che la sconfitta li aveva espulsi. Insieme all'anima della Germania bisognava ancorare a un unico destino quella della Francia, cosi geniale ma così volatile e donnesca. Strette le due in un comune compito di ricostruzione e di sviluppo (nel '50 l'Europa tendeva ancora la mano alla misericordia del generale Marshall), confortate dalla presenza di altri Paesi occidentali e forse un giorno dell'Inghilterra, la strada si sarebbe poco alla volta allargata; e le tappe si sarebbero chiamate Unione doganale, Comunità economica; e infine la Federazione che era la terra promessa invocata e sollecitata da tanti, forse con troppa urgenza. ★ * Non ci sono scorciatoie alla storia, se non qualche volta con le armi. Stalin le usò in Corea, mentre il trattato che istituiva la prima comunità europea, quella del carbone e dell'acciaio, non era ancora completo. Subito si ricominciò a temere per la fragile Europa; la garanzia atomica americana non sembrò sufficiente; Tramati chiese il contributo delle truppe tedesche, in pratica la rinascita della Wehrmacht la cui oppressione era stata spezzata solo cinque anni prima. A questo punto tutto prese a precipitare, nel bene e nel male. Monnet si sovviene delle controversie e delle speranze: come egli suggerì a Pleven il progetto di un esercito europeo nel quale avrebbero servito battaglioni tedeschi senza uniforme tedesca, ma anche senza uniforme francese i battaglioni della Grande Armata, di Verdun e di Strasburgo; come viscerale fosse la resistenza di francesi di ogni classe guidati da De Gaulle; come per superarla De Gasperi suggerisse e ottenesse di oltrepassare addirittura la comunità di difesa e di arrivare subito alla comunità politica ed economica; come nel cielo del '53 si alternassero aurore boreali e lampi di tempesta; come tutto crollasse nel '54 in una valle d'Indocina dal nome di Dien Bien Phu, l'impero asiatico della Francia insieme alla costituzione dell'Europa. Per risalire dall'abisso bisognava non disperare. Monnet ricorda bene che egli fu tra i pochi a non disperare (non dispera neanche adesso, in questo pomeriggio un poco afoso di'maggio, ricordando i venticinque anni in cui ha guidato il suo popolo alla ricerca di Canaan). Bisognava aver fisso lo sguardo sull'obbiettivo finale, che era l'unità politica dell'Europa; ma identificare le stazioni per arrivarvi. Il passato è morto, guardiamo al futuro. Nel futuro c'è la nuova fonte d'energia, nata dalla bomba di Hiroshima. Monnet sorride fra sé, ripensando come si appropriò del nome di una società di studiosi, Euratom, t se ne servì per lanciare il suo nuovo progetto, una Alta Autorità europea che gestisse a beneficio comune le ricerche e lo sviluppo degli usi pacifici dell'energia nucleare. Politicamente egli doveva questa volta operare molto più in grande che quando gli era bastato convincere Schuman o Pleven, o mettere dalla sua parte Adenauer e De Gasperi. Questa volta egli peregrinò per l'intera Europa; e Pll ottobre del 1955 riuscì a riunire a Parigi un gruppo di persone che prendeva l'ambizioso nome di Comitato d'Azione per gli Stati Uniti d'Europa. L'Europa unita sì, non come un sogno ideale, ma come una concreta volontà politica di azione. Per assicurarla partecipavano al Comitato i capi dei partiti politici democristiani (Fanfani per l'Italia), socialisti (Matteotti per l'Italia), liberali e altri (La Malfa per l'Italia), e i capi dei sindacati operai delle sei nazioni (Pastore e Viglianesi per l'Italia). Formidabile gruppo di pressione, prefigurante con sicura intuizione quella che potrà essere la base politica per un Governo d'Europa, esso doveva garantire che la marcia in avanti della costruzione europea trovasse immediato appoggio nei parlamenti e nei sindacati. Subito Euratom apparve una veste troppo stretta, e ne fu intessuta un'altra che si chiamò Mercato Comune. Nel marzo '57 ambedue le inizia tive, la sua e quella cui essa aveva dato impulso, erano rea¬ lizzate; e la nave europea rimessa sul dritto corso. Sorge ora dinanzi agli occhi semichiusi di Monnet, come in un sonno di Scipione, il fantasma armato del suo grande antagonista, l'altro grande uomo che la Francia ha p-odotto alla metà del secolo, Charles de Gaulle. Con che sfumatura di sprezzo questi poteva riferirsi a lui chiamandolo «l'ispiratore»! Ma come invece egli Monnet lo capiva bene (rinunciando a qualsiasi speranza di ispirarlo) nella sua rappresentatività del francese medio che — se non può più dominare l'Europa con Luigi XIV, Napoleone e Clemenceau — pensa ancora di poter dare lezione al mondo grazie al proprio esprit. Monnet lascia passare gli anni acconsentendo alla liaison Adenauer - De Gaulle perché essa salva l'essenziale della sua opera, la riconciliazione franco-tedesca come presupposto dell'Europa unita. Sorge e tramonta il progetto gaulliano di un'Unione europea, cade l'adesione britannica. Il mondo va cambiando, dapprima lentamente, poi in modo accelerato. L'America di Johnson s'impantana anch'essa nella giungla indocinese; il 1968 vede contemporaneamente sorgere la Ostpolitik tedesca e la rivolta giovanile. Quando la tempesta a poco a poco si placa, e De Gaulle è scomparso, Monnet richiama in vita il suo Comitato d'Azione e presta a Pompidou un'altra delle sue scatole magiche, quella dell'unione economica-monetaria europea. Così continua la vicenda, in un alternarsi di progressi e di crisi. E' superbia pensare che essa si è aggirata con sotterranea costanza attorno ai grandi voli immaginativi di un uomo segreto e schivo, privo di ogni mondana ambizione, ma fermo nel tener fede alla missione che da se stesso si è impartita? L'ultimo discorso si chiude, gli applausi muoiono con un'eco sorda, la gente sfolla dal Salone dell'Orologio, le grandi personalità europee delle prime e delle ultime leve si affrettano a Orly a riprendere i loro aerei. Un quarto di secolo è terminato; e chi potrebbe dire che cosa riserbi il prossimo venticinquennio? Solo, con gli occhi e le labbra più sicuri del passo, Jean Monnet « padre dell'Europa » (di quel tanto di Europa che esiste e che è insieme poco e molto) scende la breve gradinata del Quai d'Orsay sulla quale nel tramonto torreggiano le guardie repubblicane. Si infila nella macchina che lo riporterà all'appartamento di Avenue Foch ove da trent'anni abita con la sua moglie italiana. Pochi giorni fa ha sciolto il suo strumento politico, il Comitato d'azione per gli Stati Uniti d'Europa, con un ultimo saluto ai vecchi e ai giovani (tutti meno vecchi e meno giovani di lui), ricordando il privilegio che è stato il loro di aver direttamente partecipato alla trasformazione di un'idea in vivente realtà. Per quanto lo riguarda, ha detto, desidera riservarsi un tempo di riflessione e di riposo. Et mine dimittìs servii»! tuu>n, dunque? Ma c'è qualcuno che lo crede sincero, questo giovanotto di 86 anni che si chiama Jean Monnet, e che ha ispirato venticinque anni della nostra vita e della storia di tutti? Roberto Ducei