L'anno zero dell' America di Vittorio Zucconi

L'anno zero dell' America COME LA SOCIETÀ DEGLI S. U. ESCE DAL CONFLITTO L'anno zero dell' America La guerra provocò una crisi interna prima della sconfìtta; ora il paese, più che battuto, si sente diverso e maturo (Dal nostro corrispondente) Washington, 30 aprile. E' davvero un'America «peggiore» quella che ieri è uscita per sempre dal tunnel del Vietnam o non è soltanto « peggiorata » la percezione che noi ne abbiamo, dunque l'immagine? Che cosa ha perduto la società americana nelle paludi del Mekong che gli Stati Uniti debbano rimpiangere, e l'Europa con loro? In questo primo giorno del dopo-Vietnam, del mosaico delle immagini che riappaiono, la gioventù sconvolta, l'instabilità politica, Watergate, la tede incrinata nella « pax americana », un pensiero si insinua solo in apparenza paradossale: che i peggioramenti siano tali, in molti casi, solo secondo parametri discutibili e nel giorno della sconfitta questo Paese possa offrire a sé e ai suoi amici non rari motivi di conforto. America anno zero, si dice. Molte cose devono essere riscritte, perché molto è cambiato e il Vietnam ha spossato le coordinate del « pensare » Usa: la società che entrò in guerra era quella dei McCarthy e di Harry Truman, di Foster Dulles e delle visioni manichee e semplicistiche. Il Parlamento, istituto che oggi ha contribuito ad accelerare la fine del regime sud vietnamita tagliando i fondi, votò all'unanimità meno due soli voti la « risoluzione del Tonkino », l'atto con cui gli Usa accettarono il pretesto storico per l'intervento. Era l'America che disse al giornalista Harry Reasoner, attraverso due alti ufficiali del Pentagono nel 1953: « Se solo i francesi si levassero dai piedi, chiuderemmo in sei mesi questo affare indocinese ». « Ve lo dico io perché abbiamo perso il Vietnam, dice oggi l'antropologa Margareth Meade con la sua abituale franchezza, perché eravamo un popolo ignorante e arrogante. Confondeva¬ mo la forza con il diritto, rifiutavamo di leggere millenni di storia asiatica e mondiale, come se il mondo fosse cominciato con la dichiarazione d'indipendenza americana ». E' l'errore dell'adolescenza e l'America del 1946 somigliava tanto, rivista oggi, a un gigantesco ragazzo, ove lo sviluppo dei muscoli ha anticipato la maturazione della personalità. L'Europa fu ben lieta di accogliere quell'immagine, nutrita di racconti favolosi, di tecnologie e ricchezze quotidiane, superando nello slancio della paura e del bisogno il conflitto tra quantità e qualità. Contribuirono, gli amici, in buona misura a convincere il « grande ragazzo yankee » che tutto gli era permesso. L'adolescente americano non aveva consiglieri né tanto meno tutori, solo « clienti » o avversari. La Francia, poi erettasi a giudice, aveva il 78 per cento delle sue spese militari in Vietnam pagate da Washington nel 1954. Chiediamoci come avrebbe reagito Parigi nel 1947 se gli Usa avessero scelto l'amicizia di Ho Chi Minh contro il tardo colonialismo della Francia. Oggi, quel « ragazzo » è maturato, e con quanta pena. // caso Watergate L'America ha lasciato una generazione in Vietnam, per imparare la lezione che altre potenze appresero prima di lei, ma un grande Paese paga grandi prezzi. Due milioni e mezzo di giovani si sono avvicendati combattendo negli otto anni di intervento diretto (1964-1972), un quarto di quei giovani, secondo un'inchiesta ufficiale del Senato, rimase vittima delle droghe « dure » (cocaina, eroina, ecc.) e quasi tutti ricorsero alla « leggera » marijuana per sopravvivere all'alienazione di quella guerra. Un capitano di marines, paralizzato per sempre da una ferita spinale, riassu¬ me cosi l'esperienza di combattimento: « Uscivamo per ripulire la collina 1 dai 'viet'. e poi ripulivamo la 2 e la 3. Il giorno dopo, si ricominciava daccapo, dalla collina 1, così per settimane e mesi ». Ora egli è uno dei centomila veterani feriti che ricorrono a cure ospedaliere, per un numero annuo complessivo di due milioni di visite. Gli eroi tornati dal Vietnam gettarono le loro medaglie nella acque del Potomac, di fronte alla Casa Bianca, anziché affluire nelle associazioni patriottiche e paramilitari riservate ai veterani. Le università, poi — per osmosi — i ghetti, esplosero. A Kent State la guardia nazionale uccise gli studenti, a New York gli universitari si scontrarono con gli operai dimostrando in maniera simbolica la polarizzazione dell'opinione americana, lentamente, le chiese passarono da una benevola neutralità ad una chiara opposizione alla guerra, patrocinando talora i falò delle « cartoline di leva ». Le istituzioni su cui gli Usa j fondavano l'immagine e la ; certezza di se si incrinarono ! e il processo di erosione ar- ; rivo sino alla Casa Bianca: ; Johnson fu costretto di fatto ; a rinunciare alla rielezione, Nixon fu posto nella rotta che lo portò a Watergate. La stessa cultura, spaccata dal dibattito nordvietnamita, apparve in certa misura isterilita, capace di produrre frutti anomali come quel Marcuse prosperato solo nella stagione della collera. E il Vietnam intaccò infine l'ultima istituzione, la famiglia, divenendo quasi « la guerra dei padri ». Fu in questo contesto che i mezzi di comunicazione di massa entrarono in gioco, portando « la guerra in salotto ». Sarà compito degli storici esaminare il peso di questo nuovo elemento — la partecipazione diretta del pubblico nelle vicende strategiche, ma qui interessa notare come gli orrori quotidiani vissuti davanti al video spostarono decisamente l'opinione pubblica moderata e favorirono la saldatura tra genitori e figli nella condanna della guerra. Il ruolo giocato dalla stampa, scritta e visiva, nel decennio vietnamita, è uno dei pochi, ma grandi motivi di ammirazione per l'America degli anni vietnamiti. Guerra e censura erano, sino al Vietnam, ovunque facce della stessa realtà, ma i giornalisti americani che misuravano di blico smentendo ogni sera, via satellite, la propaganda del Pentagono. La stampa divenne cosi un corpo politico, un potere autonomo. prima mano l'assurdità del confiitto riuscirono a comuni- care direttamente con il pub- La forza dei giornali Non vi sarebbe stato Watergate se essa non fosse uscita temprata dal Vietnam, terreno sul quale i mezzi di comunicazione scoprirono e mi surarono la loro forza. Né era sempre stato così: molti gior nalisti a Washington sapeva no in anticipo dell'invasione alla Baia dei porci, ma nes suno ne scrisse per compia- cere Kennedy. E poi disse lo stesso Presidente: « Vorrei tanto che l'avessero fatto». Se il Vietnam ha avuto una « colpa » certa, questa è l'aver accelerato in maniera traumatica il naturale processo evolutivo della società americana, da forme di accettazione passiva di schemi di comportamento ad una maggiore consapevolezza dei difetti del sistema: la possibilità di far guerra contro la Costituzione, la tumefazione dell'apparato militare-spionistico. Ma nel frattempo la stampa è cresciuta, forse troppo. Il Parlamento è cresciuto, forse a dismisura, per reagire al prò- gressivo assolutismo dell'ese- ! cutivo, ma lo squilibrio non durerà per sempre La politica estera è ere- : sciuta e la sconfitta in Vietnam, già ben chiara alla fi-1 ne degli Anni Sessanta, è sta-1 ta un fattore chiave del passaggio dalla dottrina del con- ; fronto e del contenimento alla coesistenza. Oggi qualcu-1 no dice che la ritirata ame- ì ricana dal Vietnam apre ' prospettive di guerra mondiale: ma se l'America avesse ! « vinto », siamo sicuri che | queste prospettive sarebbero state meno concrete? La decisione nixoniana di « andare a Pechino » non nacque j forse, tra l'altro, proprio dal j la constatazione che il co munismo non si poteva arre- stare uccidendo i comunisti, Ima occorreva trattare? Il Vietnam ci lascia una America diversa, così come diversa è l'Europa, non necessariamente peggiore. Se vi era una guerra che gli Stati Uniti potevano permettersi di perdere, questo era il conflitto vietnamita e non convince l'assioma dei conser-1vatori secondo il quale poi-1che il potere esecutivo esce ridimensionato, tutta l'America ne è indebolita. Anziché trasferire le loro paure agli Stati Uniti, gli alleati di Washington dovrebbero ora cercare — se ne sono capaci — di aiutare l'America a ritrovare le giuste coordinate di una presenza internazionale non più poliziesca, non più soffocata. Perché da sola l'esperienza non basta mai, come diceva Mark Twain: « Se il gatto si siede su una stufa rovente, scriveva, non commetterà mai più lo stesso errore, ma non si siederà neppure sulla stufa fredda ». L'America non ha bisogno di critici, avendone in casa a sufficienza, ma di amici che l'aiutino a distinguere le « stufe roventi » dell'interventismo militare dalle « stufe fresche » di nuove ! relazioni internazionali, i Vittorio Zucconi

Persone citate: Foster Dulles, Harry Reasoner, Harry Truman, Johnson, Kennedy, Marcuse, Margareth Meade, Mark Twain, Nixon